C’è qualcosa di profondamente affascinante nel cercare ciò che non c’è più. Forse perché l’assenza lascia spazio all’immaginazione, o perché ricostruire qualcosa di perduto è un gesto di amore, resistenza e desiderio. È con questo spirito che Guerrilla SPAM, collettivo artistico irregolare, visionario e instancabilmente nomade, approda alla Street Levels Gallery di Firenze con una mostra, dal 3 maggio e fino all’8 giugno 2025, che ha il sapore di un’evocazione: “Di mondi lontanissimi, delle perdute pitture di Pontormo e altro ancora”.
Sì, proprio quel Pontormo. Jacopo Carrucci, detto il Pontormo, protagonista del manierismo fiorentino, autore inquieto e sperimentatore instancabile. Uno che, attorno al 1530, riceve l’incarico di decorare il coro della Basilica di San Lorenzo con un ciclo di affreschi monumentale, visionario, potente, forse troppo per i suoi tempi. Quello che doveva essere il suo capolavoro assoluto viene completato postumo da Bronzino, poi guardato con sospetto, infine cancellato, nel vero senso della parola, a metà del Settecento. Cancellato come si cancella un errore, o un ricordo scomodo.
Ma la storia è testarda, e l’arte ancora di più. Ed è così che Guerrilla SPAM riparte proprio da lì, da un vuoto. Dalla suggestione di quelle pitture perdute — visibili oggi solo attraverso schizzi, descrizioni, appunti, e una manciata di bozzetti superstiti — per costruire un progetto che è insieme ricostruzione impossibile, reinvenzione poetica e dichiarazione d’intenti. Un atto d’amore verso Pontormo, certo, ma anche verso il linguaggio dell’arte come viaggio.
La mostra, che segna simbolicamente la prima personale di Guerrilla SPAM — dopo oltre dieci anni di interventi pubblici, progetti educativi e incursioni urbane — è un ritorno a Firenze, città d’origine della loro ricerca artistica. Ed è, come sempre nel loro lavoro, un attraversamento. Non solo fisico, ma soprattutto culturale.
L’esposizione si sviluppa in tre aree tematiche: ombra, luce, colore. Un percorso che è anche un cammino simbolico, quasi mistico, tra tenebra e rivelazione, tra il non detto e il detto, tra ciò che non si vede e ciò che, improvvisamente, emerge. Una struttura che riflette perfettamente l’estetica di Pontormo: contrasti audaci, acide sinfonie cromatiche, forme aggrovigliate, luci abbaglianti e ombre teatrali. Ma anche una modalità per parlare di noi, di quello che ci attraversa, di come costruiamo il senso.

Nel loro inconfondibile stile ibrido e stratificato, Guerrilla SPAM non si limitano a rileggere Pontormo: lo usano come trampolino per saltare altrove. Le trentatré opere inedite, tra tavole dipinte e installazioni, sono un collage visivo e concettuale che mescola simbologie cristiane e spiritualità amazzonica, mitologie africane e racconti orientali, archetipi universali e invenzioni personali. Ogni opera è una finestra su un altrove, un puzzle di riferimenti che sfida il visitatore a perdersi e ritrovarsi.
Non c’è nulla di didascalico, nulla di illustrativo: qui il sacro si mescola al pop, il grottesco al sublime, in una continua tensione tra memoria e invenzione. Come se le pitture di Pontormo — troppo strane, troppo fuori regola per essere salvate — si fossero reincarnate in nuove forme, nuove culture, nuovi mondi. Lontanissimi, certo. Ma anche molto, molto vicini. Abbiamo chiesto direttamente a Guerrilla SPAM di raccontarci qualcosa in più: ecco cosa ci hanno risposto.
La mostra nasce dal tentativo di “ricostruzione” di un ciclo scomparso. In che modo l’assenza – o meglio, la memoria visiva negata – diventa qui presenza, materia su cui lavorare? Quanto vi interessa il concetto di “assenza” come stimolo creativo? E in che misura il gesto iconoclasta della cancellazione settecentesca degli affreschi vi ha ispirati?
Lavorando nello spazio pubblico da anni abbiamo fatto i conti con l’ipotesi o la certezza dell’assenza di qualcosa di proprio. Un disegno cancellato, imbrattato, rubato e così via. Il dispiacere dei primi anni (direi più dei primi mesi) è stato sostituito nel tempo dalla gioia della sorpresa nell’osservare le reazioni altrui. Questo non scandalizzarsi riguarda anche la sparizione di opere altrui. Esempio estremo: se domani bruciasse il trittico del Giardino delle Delizie di Bosch non piangeremo, pur amandolo molto. Esistono le fotografie, i testi, i racconti, non ci interessa il feticcio di legno e pigmento sotto la teca ma la sua visione, il suo contenuto e le sensazioni che anche nell’assenza fisica continuerà a generare. Le idee sono sempre “più” degli oggetti. E lo diciamo noi che siamo dei cercatori e accumulatori di oggetti.
Per il caso di Pontormo, forse, stessa visione. I suoi affreschi rimossi dalla chiesa di San Lorenzo adesso possono solo essere immaginati, abbiamo i bozzetti ma essendo a carboncino non rivelano i colori che possono solo essere supposti. Ci può essere il rimpianto di non conoscere la verità ma è più intrigante la voglia di immaginarla.
Nel Decameron del 1971 Pasolini interpreta un ipotetico allievo di Giotto, sta dipingendo un affresco e i lavori sono giunti al termine, si toglie l’impalcatura e il pittore brinda con i frati e gli aiutanti di fronte al muro dipinto. Poi lo guarda e in una ripresa solitaria, l’ultima del film prima della scritta FINE, dice: “Perchè realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto”.

Il percorso espositivo si articola nelle tre sezioni “ombra, luce, colore”, che evocano la grammatica della maniera pontormesca. In che modo avete cercato di far emergere questa tensione “verso la rivelazione” nel vostro progetto?
Il percorso inizia con un ciclo di pitture “nere” dai toni scuri, desaturati, prosegue con un ciclo di pitture “bianche”, chiare e luminose e si conclude con un ciclo di pitture a colori, dai toni pastello ma anche acidi. Abbiamo sempre usato poco i colori e questa mostra, decisamente colorata, ha il senso di una rivelazione. In particolare le sale con i colori sono quelle che rivelano i simboli, gli archetipi appartenenti a svariate ed eterogenee culture. Qui il colore, come il segno, è simbolico, è scelto per una ragione concettuale e non solo compositiva o estetica. Spirali, labirinti, croci, linee, ma anche sirene, cariatidi o serpenti arcobaleno acquisiscono senso con il colore. D’altronde nel mondo antico molte sculture o architetture che oggi ci appaiono bianche e neutre, così da esser definite erroneamente “classiche”, erano coloratissime, emanavano tinte e luci variopinte, abbaglianti e improbabili. Erano anche quelle apparizioni, rivelazioni che dovevano suscitare un qualche sentimento particolare.
Il progetto nasce nel 2015 e trova concretezza dieci anni dopo. Come è cambiato nel tempo il vostro sguardo, e in che misura l’attualità – anche politica e sociale – ha trasformato il senso del progetto?
Dieci anni non sono pochi per chi come noi si trasforma con una certa costanza. Pensare di creare un’esposizione oggi con idee e criteri di dieci anni fa sarebbe stato forzato e riduttivo. Quindi la mostra, che nasceva dalla voglia di ricostruire e reinventare gli affreschi perduti di Pontormo a Firenze, si è trasformata in una galassia di “mondi lontanissimi” che spaziano nel tempo e nella geografia. Uno di questi mondi è Pontormo, certo, ma ci sono anche poi le incisioni rupestri che tanto ricerchiamo in giro per rupi e grotte europee da un po’ di tempo, ci sono i disegni e segni degli aborigeni, le immagini delle culture sub-sahariane, il simbolismo medievale, le iconografie del Mediterraneo antico. Insomma tutto quello che ci affascina e che in questi anni abbiamo esplorato, è riassunto nell’esposizione che cerca di riunire cose lontane per simboli e vicini.

Molte delle vostre opere sembrano delle mappe visive, dei sinottici simbolici in cui si intrecciano archetipi, idoli, totem e frammenti di cultura pop. Quanto pesa, nel vostro processo, l’idea di un’enciclopedia visuale “in divenire”? Pontormo stesso, nei suoi bozzetti e modelli, sembrava ossessionato dal controllo e dalla sperimentazione: vi riconoscete in questa tensione costante tra disegno e invenzione?
Potrebbe essere. Abbiamo molto letto Warburg che con i suoi atlanti tentava un po’ questo, paralleli e sintonie tra immagini. E quindi visioni, geograficamente e temporalmente distanti. Non sempre ci sono connessioni provate ma è bello immaginarle. Ci piacciono anche autori come Baltrusaitis, studioso lituano che ha individuato analogie tra i capitelli mesopotamici e quelli delle chiese tedesche o francesi: secondo lui i tappeti che si commerciavano nell’antichità trasportavano con loro immagini e decori poi copiati e trasmessi altrove. Ha scoperto che pure l’arco carenato delle cattedrali gotiche potrebbe derivare da quello asiatico delle nicchie del Budda, o che i mostri medievali detti “grilli” possano essere nati dalla sbagliata interpretazione di monete romane usurate in cui i cavalli sembravano ormai grilli a due gambe. Ora, se si ricercano segni e simboli tra culture e luoghi disparati si finisce proprio per non finire mai, perché ogni scoperta apre le porte ad altre scoperte da dover fare. Questo non è un fatto negativo ma un qualcosa da accettare e noi lo stiamo facendo perché la gioia della ricerca supera questo apparente limite.
La mostra invita a un viaggio simbolico e iconografico tra culture, continenti e mitologie: quanto pesa l’eredità del “museo delle meraviglie” rinascimentale in questa costruzione immaginifica?
In realtà questa mostra non è una wunderkammern, una camera delle meraviglie con curiosità e accumuli di oggetti stravaganti, favolosi, unici o curiosi. Potrebbe sembrarlo, è vero, ma in realtà è il suo esatto opposto. L’intero ciclo di opere è un condensato di immagini prelevate con precisione, associate tra loro e riproposte, sono selezionate in modo mirato come nel distillato di un alchimista. La mostra è l’elisir finale ma al suo interno ci sono tutti i fiori, le erbe, le pietre o i minerali che dosati e mescolati hanno creato un distillato magico.