Al MAMbo di Bologna apre “FRONTIERA 40 Italian Style Writing 1984-2024”: l’intervista alla curatrice Fabiola Naldi

di Clara Amodeo

Per un essere umano 40 anni non sono poi così tanti, considerato che l’aspettativa di vita in Italia supera gli 83. Eppure, quando si parla di un movimento, sociale e culturale, che nasce fuori dai circuiti ufficiali dell’arte e che, senza sovvenzione alcuna (anzi, con parecchi ostacoli!), si allarga a macchia d’olio in tutto il mondo, quasi come se fosse un esperanto universale che unisce etnie, generi e generazioni, beh quei 40 anni assumono una ben altra rilevanza. Ed ecco che, dopo 40 anni dalla visionaria “Arte di frontiera. New York Graffiti” alla Galleria comunale d’Arte Moderna di Bologna, sembra doveroso rallentare (senza mai fermarsi), raccogliere quell’eredità per celebrarne sempre il portato (oltre che le persone) e capire quanto e come le cose siano cambiate, soprattutto su suolo italico, evolvendo.

Dal 13 aprile al 13 luglio 2024 il MAMbo, Museo d’Arte Moderna di Bologna, ospita così “FRONTIERA 40 Italian Style Writing 1984-2024”, progetto espositivo che nasce dalla ricerca dalla curatrice Fabiola Naldi intorno al percorso di Francesca Alinovi e che mette in mostra i bozzetti di 181 autori italiani che hanno scritto, e tutt’ora scrivono, le evoluzioni nostrane di quell’arte di frontiera. Le opere su carta saranno inserite in dispositivi “mobili”, nove teche, allestiti in diversi ambienti del MAMbo e tutta la mostra si avvarrà di mappe, flyer e documentazioni web utili ad approfondire il progetto come anche la necessità di “raccontare”, sempre a partire dal 1984 e dalla mostra Arte di frontiera, come il fenomeno si sia evoluto e si sia trasformato.

Ne abbiamo parlato con la curatrice stessa, Fabiola Naldi.

Gran parte dei tuoi studi si sono concentrati su Francesca Alinovi, critica e curatrice pioniera e visionaria: qual è il tuo “rapporto” con lei e con i suoi studi? Perché hai scelto di concentrarti su di lei e sul suo operato?

Nell’arco della mia carriera ho sviluppato tre ambiti di ricerca: la video arte, la performance e l’arte nello spazio urbano. All’interno di quest’ultimo, il mio “rapporto” di studio e di analisi dell’opera di Francesca Alinovi è sempre stato un punto indiscutibile. A partire dalla mia formazione universitaria, dalle mie collaborazioni accademiche, dai contesti e contenuti dei miei progetti, Francesca Alinovi ne era e ne è una parte importante. Nonostante io non appartenga alla sua generazione, condividiamo la stessa formazione, le stesse frequentazioni scientifiche, la stessa metodologia culturale. Ricordo, ancora studentessa, che nella biblioteca del dipartimento di arti visive (DAMS) i libri che attiravano il mio interesse avevano sempre questa dicitura nella prima pagina “dono della famiglia Alinovi”; erano i libri che la sorella Brenna (una sessantina come ha avuto modo di dirmi) decise di donare alle nuove generazioni: io sono stata una di quelle e gliene sarò sempre grata. Il principale motivo della mia ostinazione scientifica verso Alinovi è dato da una confluenza di interessi, amori e passioni artistiche. Penso in particolare non solo alle arti di frontiera da lei teorizzate, ma a una pubblicazione del 1981 condivisa con Claudio Marra “La fotografia. Illusione o Rivelazione?”: io ero affascinata dall’illusione (quella di Alinovi appunto), tema che poi mi ha portato a pubblicare il mio primo libro “I’ll be your Mirror. Travestimenti fotografici del novecento” edito da Castelvecchi nel 2003. Come si può intuire, i testi di Alinovi sono sempre stati per me un porto sicuro e non so dire quanto mi dispiace non averla potuta conoscere visto che al momento della sua scomparsa io avevo appena 10 anni.

Come hai deciso di traghettare qualcosa che è stato dirompente dal 1984 al 2024? Cosa ti ha guidata nelle scelte curatoriali che hai fatto e quali sono state queste scelte curatoriali, visibili in mostra?

Arte di frontiera è una mostra ricordata sia per la sua valenza documentale nei confronti di una figura curatoriale scomparsa sia per i testi che Francesca Alinovi scrisse negli anni precedenti, ma se guardiamo con attenzione a come fu allestita e divulgata, l’impianto era molto classico (dall’allestimento alla pubblicazione e anche in parte all’aspetto pittorico dei writer che io non ho mai amato molto). Arte di frontiera è stata fondamentale non solo per Bologna, ma anche per altre città italiane e correndo l’anniversario quest’anno, e avendo io portato avanti diversi progetti legati a colei che l’aveva ideata, non potevo non cogliere l’occasione. A tal proposito, abbiamo anche trovato una piccola strada da intitolarle e, per l’occasione, verrà fatta una pubblicazione in inglese su alcuni dei suoi testi selezionati dalla sottoscritta. Gli studiosi italiani che scrivono perlopiù in italiano, soffrono della scarsa diffusione fuori dal territorio nazionale. Anche Francesca Alinovi (a parte pochissimi interventi tradotti) ha vissuto lo stesso destino. Ritengo che sia il momento, a distanza di 40 anni dalla sua scomparsa, di recuperare la sua forza espressiva e critica in una diffusione dei suoi testi su scala internazionale.

Mi spieghi meglio la scelta dell’italianità? È solo per una questione di utilità (parlare del Writing in America o nel mondo starebbe stata un’impresa titanica) o c’è dell’altro?

La prima mostra indagava l’avanguardia americana e vale la pena ricordare sempre al grande pubblico che stiamo parlando dei primi anni Ottanta quando proprio la scena americana iniziava a prendersi i dovuti meriti anche fuori dai confini nazionali.  Ma la mostra museale, e ribadisco con forza che qui si sta parlando di istituzione museale pubblica e non di una galleria privata o di spazi alternativi (dove gli stessi esponevano da diversi anni), era del tutto inusuale. Arte di frontiera, per l’Italia e non solo, ha rappresentato il momento fondante, consacrante di un linguaggio che si è dimostrato in grado di relazionarsi con il sistema dell’arte contemporanea. Arte di frontiera ha indubbiamente stimolato una consapevolezza stilistica nelle nuove generazioni italiane e proprio partendo da questo presupposto l’unico modo per omaggiare la progettualità di Alinovi era superare la prima esposizione, ricordandola, ma facendo altro con la speranza di muovermi in una logica di costruzione, rappresentazione e restituzione di un territorio stilistico ampio, eterogeneo e in continua sofisticazione. Non potevo non farla al MAMbo (che ricordiamo essere il luogo in cui la Galleria d’Arte Moderna è divenuta a pieno titolo museo) per restare fedele al contesto originario pur sapendo che avrei lavorato in modo differente. L’anniversario è stato per me il pretesto perfetto per guardare oltre il 1984 e rivolgermi a coloro che sono arrivati poco dopo o che hanno guardato ad Arte di frontiera con uno sguardo del tutto diverso. A questo aggiungo il motivo per cui ho scelto un dispositivo “classico” come quello della teca espositiva intesa e voluta come un’ennesima testimonianza di allestimento istituzionale: se pensiamo ai grandi musei d’arte moderna è possibile trovare un luogo importante qual è il Gabinetto delle stampe e dei disegni. Scegliere di esporre i bozzetti, vere e proprie opere su carta, ha significato affrontare l’aspetto più concettuale, teorico e riflessivo.

Cosa è cambiato (o cosa non è cambiato) in questi 40 anni di Writing?

Se c’è una disciplina che costantemente ripensa sé stessa e cambia nel ripensare sé stessa, questa è proprio la disciplina del Writing. È cambiato tutto pur partendo dal presupposto che alcune regole fondamentali del glossario e dell’attitudine restano costanti, almeno per le generazioni prese in considerazione.

Pensi quindi che ci sia margine per ulteriori sviluppi futuri per l’intero movimento? O magari quel che c’era da dire è stato detto e, ormai, non c’è più terreno fertile? In entrambi i casi, perché?

Lo dico da anni e lo continuo a ribadire: il Wrting è in movimento, mai si esaurirà. Certo, comprendo e mi aspetto anche, che le città vengano viva di una costante manutenzione e che i muri vengano periodicamente “puliti”. Allo stesso tempo mi aspetto che le stesse città continuiamo a subire delle trasformazioni. Lo slogan che spesso ripeto è “you clean, I write”, credo che la relazione tra queste due attività durerà nel tempo.

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