L’antologia non autorizzata di frasi clandestine di Caos

di Clara Amodeo

È possibile, secondo voi, resistere a un progetto chiamato “Antologia non autorizzata di frasi clandestine”? Per me assolutamente no. Ed è anche per questo che, fin da quando me ne ha parlato, non ho potuto che guardare con interesse, passione e supporto a uno dei nuovi nati in casa dell’amico, artista e poeta di strada Caos. Un percorso dalla gestazione lunga, proprio perché complesso e stratificato (nel vero senso della parola), che domani sarà visibile, a partire dalle 18, alla Casa degli Artisti di Milano.

Ma di cosa si tratta, esattamente? “L’Antologia non autorizzata di frasi clandestine è un lavoro di ricerca e risemantizzazione delle frasi tracciate in modo non autorizzato e anonimo sui muri delle città”, si legge nel documento che accompagna la comunicazione del progetto. Ma quando si parla di (e con) Caos le parole, a maggior ragione, sono importanti. Me ne sono resa conto dopo l’ultima (l’ennesima) chiacchierata che ho fatto con lui sull’Antologia, la prima che ci siamo fatti in un contesto quieto e senza alcol.

“Dopo anni di ricerca, durante i quali inserisci poesia nello spazio urbano e nei luoghi pubblici, ho iniziato a rimanere affascinato da tutta quella poesia che sui muri esisteva già – mi ha detto Caos – tutte quelle frasi ed espressioni di persone che non hanno velleità artistica o poetica, ma “solo” una grande urgenza comunicativa”. Una comunicazione che non è fatta di messaggi privati, che non resta nelle chat dei nostri smartphone, ma che si rende pubblica – clandestinamente – e che tappezza, senza autorizzazione alcuna le strade delle nostre città con messaggi spontanei.

“La domanda che mi ronzava in testa è un interrogativo millenario: cosa è poesia? Quella che vedo è arte? Forse no, ma a me personalmente colpiva. Quelle parole avevano davvero una potenza poetica. E chi decide che la roba che faccio io è poesia e quello che fanno gli altri no? Chi decide che un murale è arte e una tag no?”

Un rimuginare continuo sul senso poetico di quelle parole, unito a una buona dose di studio della storia dell’arte, hanno così portato Caos a riproporre concetti e parole nella sua opera attraverso un lavoro linguistico e semantico. “Col tempo ho iniziato a raccogliere questi messaggi sui muri tra Milano e Torino (ma anche a Bologna, Genova e Palermo), e senza mai andarli a cercare veramente lasciavo che fossero loro a trovare me. Con le più curiose di esse (o almeno con quelle che colpivano me direttamente e personalmente) ho iniziato a comporre delle poesie. Poesie create solo utilizzando le parole degli altri. L’idea era di valorizzare quello che la maggior parte di noi vede solo come imbrattamento, creare un archivio delle espressioni marginali dell’umano”.

Il primo e più naturale passaggio per un artista che vive la sua vita a cavallo tra la strada e la poesia è stata, ovviamente, quello di provare a ri-dipingerle. “Dopo i primi tentativi di mixaggio, ho iniziato a riflettere come restituire questo archivio senza snaturare la loro essenza clandestina e illegale”. Un quadro? No, perché un quadro diventa un bene vendibile. Un libro? No, perché l’intento non era quello di chiudere ma di aprire alla pubblica fruizione. E poi, l’idea.

“Un tatuaggio. Più tatuaggi. Rendere queste poesie dei tatuaggi, che dalla pelle della città si calano sulla pelle delle persone conservandone il dolore. Il tatuaggio è il linguaggio della strada, della periferia (da qui anche l’idea di tenere gli stessi font con cui erano state realizzate le scritte in originale), il tatuaggio permette a queste opere di essere conservate senza appropriarsene, di renderle vive, come vive sono le persone, e di farle circolare per le strade, tra le persone, sulle persone”.

Oggi, dunque, l’Antologia non autorizzata di frasi clandestine è  una raccolta poetica le cui pagine sono costituite letteralmente dalle persone e dalla loro pelle: “Un saggio della città nomade, composto dalle sue voci più istintive e anarchiche e di tutto quello che non è storicizzabile o controllabile, simbolo di una memoria collettiva periferica, temporanea, labile, incerta come il futuro, eppure persistente”.

Pagine fatte di persone, poesie fatte di pelle e inchiostro, componimenti verbo – visivo inediti, poesie che sono la somma calibrata di parole, segni ed elementi disturbanti trafugati dallo spazio urbano. Ogni persona è una pagina, ogni pagina ha un senso rispetto alla persona che l’ha scelto. Sarà per questo, forse, che la mia scelta è caduta sulla pagina 15, che a breve sarà la mia spalla sinistra.

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