La notizia, stramba e allettante allo stesso tempo, non poteva che arrivare da quell’agglomerato di idee e presa bene che è Valentina di Vagabondo: “Guarda un po’ cosa ho trovato”, mi ha scritto qualche tempo fa, linkandomi la notizia della presentazione YouTube di un libro che si sarebbe tenuta all’Istituto Confucio dell’Università degli Studi di Milano (ente magnifico che anche io, ai tempi del Master in Giornalismo, ho avuto modo di frequentare). “I graffiti in Cina” era il titolo del libro in questione, un tema che non poteva non destare l’attenzione di chi, come me, ha sempre studiato, conosciuto e trattato il movimento di cui il Writing fa parte là dove tutto è nato, ossia in Occidente.
Accostare i termini “graffiti” e “Cina” (quest’ultimo intercambiabile con altri Paesi dell’Oriente, Estremo o meno) mi sembrava infatti una contraddizione in termini, un ossimoro difficile da comprendere, sopra al quale, my fault, pendeva un gap di ignoranza e stigma che non ero quasi mai riuscita a colmare (complice, a dirla tutta, la scarsità di fonti a cui attingere). Parlo al passato, per fortuna, perché dopo la presentazione del loro libro, le autrici Adriana Iezzi (Professoressa di Lingua e cultura cinese presso il Dipartimento di Interpretazione e Traduzione dell’Università di Bologna), Marta R. Bisceglia (sinologa interprete e traduttrice, docente di lingua italiana, cinese e spagnola e dottoranda presso il DIT dell’Università di Bologna) e Martina Merenda (sinologa, traduttrice, doppiatrice professionista e anche lei dottoranda presso il DIT dell’Università di Bologna) mi hanno dissipato diversi dubbi e messo in ordine le poche nozioni che avevo, chiarendo tempi, persone, concetti attraverso un’opera unica nel suo genere.
Come nasce l’idea di questo libro così inusuale?
Adriana Iezzi: Tutto nasce all’epoca della mia ricerca di dottorato sulla calligrafia cinese moderna, ossia su come gli artisti cinesi contemporanei usano la calligrafia non in maniera tradizionale ma in opere che contemplino nuovi media, installazioni, arte digitale, land art, collage, pittura. In quell’occasione non potevo non imbattermi anche nel Writing e, da qui, nell’Arte Urbana. La crew di cui mi son o occupata è stata quella del Kwanyin Clan, che è una delle più interessanti da questo punto di vista perché usa tanti riferimenti all’arte tradizionale cinese, tra cui, soprattutto, i caratteri al posto delle lettere (da qui il termine che abbiamo coniato, Charactering, al posto di Lettering). Da questa crew la mia (e nostra) ricerca si è allargata a macchia d’olio, per poi focalizzarmi su altre crew e altri writer di Pechino. Poi ho conosciuto Marta che stava scrivendo la sua tesi magistrale dal titolo “La Street Art in Cina e in altri paesi dell’Asia orientale e sud-orientale”…
Marta R. Bisceglia: Sì, è stata una bellissima coincidenza. Da grande appassionata di Arte Urbana quale sono, ho avuto modo di conoscere molti writer e ho vissuto con loro molte esperienze (anche in strada). Nel frattempo, mentre mi occupavo di studi orientali, mi sono chiesta perché non unire le mie due grandi passioni scrivendo una tesi su Street Art e Asia, e mi sono ben presto resa conto che c’era tantissimo da dire. A quel tempo Adriana era l’assistente del mio relatore ed è stata lei a guidarmi all’inizio, proponendomi anche di fare delle interviste. Nel frattempo ho scritto la tesi, Adriana andava avanti con la sua ricerca di dottorato, abbiamo iniziato a scambiarci informazioni e materiali nonostante io mi sia spostata in Spagna e alla fine, dopo anni (considera che avevamo iniziato nel 2015), abbiamo deciso di mettere insieme le tante ricerche fatte. A differenza di Adriana, io mi sono focalizzata sul panorama artistico di Shanghai, avendo passato lì un mese a fare interviste e reportage foto/video.
Martina Merenda: Infine, io ho conosciuto Adriana durante l’ultimo semestre di lezione dell’ultimo anno di magistrale. Era venuta a fare un corso al secondo semestre, me lo ricordo come se fosse ieri: arriva, apre il suo pc, proietta un’opera e dice: “Qui ci sono dei caratteri: indovinate quali sono”. Da lì, un colpo allo stomaco: tutti noi abbiamo provato a cercare questi caratteri ma nessuno è riuscito a riconoscerli, io guardavo Adriana e vedevo una passione mai vista sul suo volto. Solo dopo averci rivelato il contenuto di quei caratteri io ne rimango totalmente affascinata e le dico che, per approfondire questa cosa, avrei voluto iniziare un percorso di tesi con lei. Considera che era il periodo di aprile-maggio 2015, lei non sapeva se ci sarebbe stata, io mi sarei dovuta laureare a marzo 2016 e ho iniziato questa avventura in questo mondo nuovo da totale profana. Tuttavia, sono riuscita a prendere contatto con il Clan, poi mi sono focalizzata sulla città di Chengdu ed è venuto fuori tanto materiale. Dopo la laurea, Adriana mi ha messa in contatto con Marta che aveva raccolto, a sua volta, altro materiale: da lì l’idea di mettere insieme tutto il nostro lavoro per realizzarne una pubblicazione. Quindi, la lunga scalata verso il milione è iniziata nell’estate 2016..
Adriana Iezzi: Sì, l’idea di farne un libro è di lunga data. Inizialmente abbiamo pensato: “Poiché non c’è nulla di scientifico in commercio, perché non creiamo noi qualcosa di nuovo?”. Il problema è stato poi trovare un editore che appoggiasse la nostra scelta di trattare un argomento poco mainstream: l’idea iniziale era di fare 10 interviste a 10 writer diversi, divisi per città, mettendo in luce il fatto inedito che pochissimi parlano in inglese e traducendo noi quelle interviste..
Marta R. Bisceglia: Pensa che l’abbiamo fatto durante il primo lockdown, è stato bello creare qualcosa quando tutto andava storto, ma pure le case editrici avevano i loro problemi e la prima casa ci ha dato buca (e qui sconforto fortissimo).
Adriana Iezzi: Poi per fortuna ho vinto un grosso progetto di ricerca europeo e da lì Marta e Martina sono entrare nel team del progetto Write. Poi, grazie all’università, abbiamo trovato questa casa editrice, la 1088 press, che pubblica in open access: abbiamo dovuto modificare ulteriormente il testo, ma alla fine siamo riuscite nell’impresa.
Qual è stato il vostro modus operandi nella conduzione della ricerca?
M.R.B.: Ai tempi della stesura della tesi magistrale ero in Italia e quindi le prime interviste le ho fatte via mail e Facebook. L’anno dopo la tesi ho avuto la fortuna di incontrare di persona a Roma un componente del Kwanyin Clan che stava studiando in Italia: lui ci ha dato tanto materiale che poi ho girato ad Adriana che si stava focalizzando su Pechino. Nel frattempo, sono andata a Shanghai e di persona ho conosciuto molte persone, che ho potuto intervistare live , non “mediata” dagli strumenti digitali della rete: ho conosciuto l’unica writer donna che analizziamo nel libro, Tin.G, e parte della più grande crew di Shanghai, la Oops Crew, che mi ha portata in giro e mi ha anche aiutata molto nella fase di traduzione in cinese di alcune parole del glossario tecnico; ho conosciuto Alex Zhou, che mi ha raccontato gli albori del movimento in Cina. Attualmente invece, nel mio progetto di dottorato e come membro del team Write, continuo a occuparmi dei graffiti in Cina e il mezzo che uso maggiormente è Instagram: sto scoprendo molti nuovi artisti e nuovi “filoni” del movimento che non vedo l’ora di condividere.
M.M.: Anche io ho iniziato con le mail, anche se il Clan aveva già un suo sito e da lì ho potuto prendere le prime informazioni. In tal caso il contatto via mail è stato importante perché gli artisti mi hanno dato informazioni specifiche su opere specifiche, cosa che sul sito non potevi avere. Dopodiché con Gas c’è stato prima il contatto via mail, poi lui mi ha dato il suo contatto WeChat e abbiamo parlato, gli ho detto che sarei andata in Cina e l’avrei incontrato e così è stato. Adesso io lo seguo ancora su Instagram, lui ha continuato a darmi informazioni fino a quando abbiamo pubblicato il libro, avremmo da scrivere fino all’eternità. Ora mi sto occupando della performance art ma questa tipologia di metodologia funziona moltissimo.
A.I.: Tutto è partito dal fatto che si è potuto fare molto da qui: il web per i cinesi è importante, hanno tutti il loro blog su cui postano e commentano quel che fanno. Io ho lavorato moltissimo sul blog del Kwanyin Clan (che però oggi non esiste più): lì loro postavano tutte le opere che realizzavano, facendo un lavoro di archivio per me molto utile. Prima di contattare un artista devi conoscere molto bene la sua produzione artistica, sapere quello che fa, e solo dopo puoi scrivergli o sentirlo (nel mio caso, usando sia la mail che WeChat).
Graffiti e Cina sono due mondi apparentemente molto distanti tra loro, almeno nella percezione occidentale: è veramente così o esiste una via cinese al graffitismo? Quali le differenze e quali i punti in comune con la cultura occidentale?
A.I.: La domanda che ci siamo poste nel libro è stata proprio questa. Diciamo che ci sono peculiarità che la caratterizzano, ci sono punti di contatto ma anche divergenze. Una delle differenze principali è che i graffiti in Cina sono molto legati al sistema dell’arte: i writer sono tutti artisti, hanno una formazione artistica di tipo accademico e questo si rivede nelle loro opere, caratterizzate da un livello tecnico molto avanzato. In Cina sono davvero poche le persone che sanno davvero cosa siano i graffiti, per cui c’è molta curiosità e attenzione verso questa forma d’arte. Per quello che riguarda il tema della repressione, è infatti importante mettere in evidenza come le autorità all’inizio sono stato molto tenui nel contrastare questo fenomeno, non c’è una legislazione precisa in materia, e questa situazione di limbo ha permesso agli artisti di avere molto tempo a disposizione per sperimentare senza rischiare. Non solo: le aree in cui si fanno i graffiti sono aree circoscritte e legate al mondo dell’arte, sono perlopiù distretti artistici che vedono un’attività più intensa perché più tollerata. Infine, un’altra peculiarità è che sono pochissimi i casi di graffiti su treni o edifici pubblici, perché in Cina è vietato imbrattarli. Il mondo dell’arte è un mondo che dà molto spazio a questi artisti, mettendo loro a disposizione collegamenti molti forti al lato commerciale: per loro fare graffiti in strada è un vero trampolino di lancio! Sul lato tecnico-stilistico, invece, è molto interessante la presenza di un filone chiamato “Chinese Style Graffiti” in cui si usano i caratteri al posto delle lettere e si cerca di creare una “via cinese” ai graffiti con richiami molto forti alla cultura d’origine.
M.R.B.: In Cina, l’avvento tardivo del fenomeno del graffiti writing, già contaminato dalle nuove sperimentazioni legate al post-graffiti ha portato alla fioritura di una forma ibrida di graffiti art, che senza dubbio riecheggia i fondamenti del writing americano, data l’adesione di alcuni artisti alla cultura hip-hop, ma che al tempo stesso si mescola e si confonde con la street art in senso lato.
M.M.: Alla fine quello che esprimiamo e il nostro modo di interpretare l’arte è lo specchio di quello di cui siamo fatti, è sintomo di quello con cui siamo cresciuti. Quindi, al pari deglli artisti americani, così anche quelli cinesi hanno ciascuno la propria caratterizzazione che si riconosce anche solo tramite il tratto, il modo in cui viene scritta la lettera, la mano che traccia: è interessante sia il processo evolutivo sia la reinterpretazione di ognuno di noi.
A quali conclusioni, oggettive ma soprattutto personali, vi ha condotte la scrittura di questo libro?
A.I.: Quelle oggettive sono che è un movimento da tenere sott’occhio, è una lente di ingrandimento per capire cosa sta succedendo adesso nel mondo dell’arte e nella società cinese in quanto è un movimento che nasce proprio dalla cultura cinese, pur se focalizzato solo sulle realtà urbane. Quelle personali… beh, per me è stata una scoperta bellissima: sono partita dalla calligrafia e da forme artistiche un po’ più tradizionali per scoprire che in strada in Cina possono convivere pittura di paesaggio e bombolette, poesia classica e spray. E’ stata una folgorazione, tant’è che la ripropongo spesso nelle mie lezioni all’università e parte del mio progetto europeo è proprio su questo.
M.R.B.: Volevo farti notare come ci compensiamo non solo perché raccontiamo tre città diverse, ma anche perché siamo riuscite a unire tre punti di vista differenti: Adriana è partita dalla calligrafia, io dalla strada, Martina da un’opera e tutte e tre siamo rimaste allo stesso modo folgorate. Io forse ho avuto più una specie di “visione”, ammaliata dalle tag disseminate tra le strade di Roma, mi sono chiesta se in Cina fosse lo stesso. A livello oggettivo, invece, posso dirti che ci sono tante altre cose che non voglio ancora spoilerare: io mi sto occupando di tanti altri artisti recenti che fanno cose completamente diverse da quelle che abbiamo analizzato e ci sono tante cose da dire: per esempio, ci sono writer cinesi che invece di tornare indietro all’Old School “scrivono male ”, digitalizzano i graffiti, si rifanno a daosimo e buddhismo. E poi ho da poco scoperto un nuovo movimento: il prose-based graffiti. Si tratta di scritte per strada che sono espressioni emotive che si riferiscono a varie tematiche (amore, disagio, depressione, senso di oppressione) probabilmente fatte in conseguenza alla reclusione forzata durante la pandemia.
M.M.: Io non me ne sto occupando più, ci sono stata fino a un certo punto però sono innamorata dell’arte in tutte le sue forme. Per me ogni manifestazione di espressione è un’espressione di vita, quindi se c’è qualcosa di artistico che può essere dietro un muro o dietro una scritta, io lo voglio sapere, mi piace capirlo. studiando questo argomento ho capito che me lo immagino così: è una linea retta in cui c’è la oggettività dell’azione, il fenomeno, e dentro una serie di onde che si spargono da una parte all’arte in cui ognuno dipinge il suo modo di vedere quella oggettività. Fa tutto parte di un’unica cosa, che è caos inspiegabile con una definizione ma che crea bellezza.