11 artisti di fama nazionale e internazionale (più una fotografa d’eccezione), altrettanti speaker e un sacco di voci, tutti chiamati a partecipare a un festival fatto di produzioni artistiche, ma anche talk e speech dedicati, conferenze di artisti, dibattiti, proiezioni di film, tour a piedi e workshop. Di cosa stiamo parlando? Di Nuart Aberdeen 2022, uno dei festival di Street Art più famosi e longevi di tutto il mondo, che quest’anno si è interrogato sul tema della riconnessione (“Reconnect”) dopo gli anni della pandemia, del distacco e dell’ansia di fondo, tutte diventate parte della nostra quotidianità.
Dalla mente e dal cuore di Martyn Reed, fondatore e curatore della kermesse, Nuart ci porta dal 2001 ad oggi (e chissà per quanti anni ancora, speriamo) prima nella Norvegia di Stravanger poi nella Scozia di Aberdeen. Another Scratch In The Wall ha avuto il piacere di parlarne con Giulia Blocal, autrice, scrittrice e responsabile del blog Blocal Travel, specializzata in Street Art e che da anni collabora con Nuart in qualità di media partner: con nessuno se non con lei abbiamo voluto fare due chiacchiere, per farci raccontare la prima vera edizione del festival dopo i due anni di stop a causa della pandemia da COVID-19.
Ciao Giulia, grazie del tempo che ci dedichi. Recentemente ci hai portato dietro le quinte del Nuart Aberdeen Street Art Festival ad Aberdeen appunto, in Scozia. Da quanto tempo segui la kermesse e come hai avuto modo di conoscerla?
Ho il piacere di collaborare con il Nuart festival dal 2016, anno in cui, per la prima volta, sono stata invitata a raccontare il festival nella sua forma originaria, ossia l’edizione norvegese, che si è svolta a Stavanger dal 2001 al 2019.
Nuart è il più importante evento al mondo dedicato alla street art. Martyn Reed, fondatore e curatore di Nuart, rivendica con fierezza l’utilizzo di questo termine, non importa quanto corrotto, in un gesto di resistenza al muralismo top-down che si sta imponendo nello spazio pubblico. Sui muri di Stavanger, infatti, si può leggere l’evoluzione del movimento fino ai giorni nostri.
Nel 2017 il Nuart Festival è approdato ad Aberdeen e io ho avuto il piacere di documentare anche questa nuova avventura, sia sul mio blog di viaggi e street art Blocal, che su siti internazionali come “I Support Street Art” e “Street Art Today.”
Il tema di Nuart 2022 è “Reconnect”. Riconnettersi dopo due anni di distanziamenti e isolamenti. Come è stata affrontata, tu che l’hai vissuta nel suo work in progress, la tematica dagli artisti e dalle artiste di questa edizione?
Come sempre, ogni artista ha affrontato la tematica proposta dal festival da un’angolazione diversa, partendo dalla propria poetica e, in molti casi, spingendosi oltre la propria zona di comfort. Questo accade spesso al Nuart ed è uno dei motivi per cui amo questo festival.
Jacoba Niepoort è partita da un tema che le è familiare, l’essere umano messo a nudo, per rappresentare la vicinanza dei corpi, l’incastro degli arti che ci è mancato negli ultimi anni.
Erin Holly ha dipinto la foto di un bagno presa da una rivista di arredamento anni ‘80 per rappresentare non solo gli spazi domestici in cui ci siamo rinchiusi, ma anche l’ideale di una vita dall’estetica perfetta, che poi è il sogno di un futuro migliore al quale ci siamo aggrappati.
Elisa Capdevila ha rappresentato un momento di introspezione, di riconnessione con noi stessi, che in molti abbiamo vissuto durante i mesi di isolamento.
Mohamed L’Ghacham ha raccontato la scena intima, casalinga, di una colazione in famiglia. Quei momenti con i nostri congiunti che, da banali, sono diventati il perno delle nostre vite. Allo stesso modo, le scene di vita comune rappresentate nelle foto che Mohamed compra nei mercatini dell’usato, acquistano importanza quando l’artista le riporta in largo formato sui muri.
Altri artisti hanno interpretato il tema nelle sue sfumature più sociali e politiche, come Jofre Oliveras e Pejac. Entrambi, a modo loro, hanno affrontato ciò che ci impedisce di connetterci, ossia il nazionalismo. Jofre Oliveras ha rappresentato un uomo accecato dalla sua bandiera, impossibilitato a vedere oltre, e quindi, a capire che le questioni che siamo chiamati ad affrontare a livello globale, dalla crisi climatica alle migrazioni, richiedono una visione e un’azione congiunta, che però è impossibile raggiungere se ognuno guarda solo al sasso di terra di cui si è proclamato difensore. (L’opera si intitola “The man who owns the stone”).
Pejac ha rappresentato tanti piccoli omini che si disperdono attorno alla parola “Welcome,” creando, con la tecnica del trompe l’oeil, l’illusione di uno zerbino situato davanti a un centro per i servizi sociali. Un’opera che sottintende come l’accoglienza sia alla base della connessione tra esseri umani.
Nel tuo articolo parli di un fil rouge sull’eterogeneità della provenienza degli artisti. Quest’anno il Nuart annovera un bel numero di spagnoli ad esempio. Che riflessioni sono nate a riguardo dalle conversazioni con gli artisti? Con alcuni sei andata a fondo nelle loro storie. È davvero incredibile come l’Arte Urbana riesca a catalizzare tradizioni, provenienze e vissuti.
Quest’anno gran parte degli artisti invitati al festival (5 su 11) è di Barcellona. Questa cosa mi ha colpito molto, anche se è innegabile che, negli ultimi anni, gli artisti spagnoli stiano conquistando la scena del muralismo contemporaneo. Più che con le tematiche, io credo che gli spagnoli si siano imposti sulla scena internazionale con il loro stile molto pittorico, quasi materico. Stile che deriva dalla storia dell’arte del loro paese, rappresentato da Velazquez e Goya, ma anche dai pionieri della scena urbana spagnola, come Borondo e Axel Void. Artisti che hanno usato spesso il pennello al posto delle bombolette, dando vita a un muralismo che ricorda molto le pitture su tela.
In particolare, nelle interviste che ho registrato a Nuart Aberdeen 2022, abbiamo parlato molto della scena graffiti di Barcellona, che in passato è stata molto potente. Non a caso la prima marca di bombolette spray prodotte appositamente per i graffiti (Montana) è nata proprio a Barcellona. Ora la scena dei graffiti di Barcellona non è più catalizzante come un tempo, ma è indubbio che la sua influenza sia ancora molto forte, anche su alcuni artisti che ho intervistato a Nuart Aberdeen 2022, che non ne hanno fatto parte in prima persona.
“Reconnect” è stato anche il topic del Symposium: il ciclo di talks, workshops e altri eventi collaterali di Nuart 2022. Quali sono i punti di vista che più ti hanno incuriosito? Quali sono invece i pensieri più ricorrenti sul tema legato all’Arte Urbana?
Nuart Plus è da sempre il mio momento preferito del Nuart Festival, perché mi dà modo di approfondire la street art e i graffiti da molteplici punti di vista. Negli anni ho potuto apprezzare gli interventi di curatori, storici dell’arte e artisti, ma anche criminologi, urbanisti, sociologi, antropologi, architetti, etnografi, giuristi, fotografi, attivisti, e accademici provenienti da molte altre discipline. Tutto ciò dimostra la trasversalità della street art, che è una delle cose che più mi affascina di questo movimento.
Quest’anno si è dato molto spazio a progetti di curatela “fuori dagli schemi”, raccontando come abbiano coinvolto la comunità nonostante i vincoli imposti dalla pandemia, e come si possa ripartire prendendo spunto da chi, come gli street artists, intravede possibilità creative negli spazi urbani.
Forse il mio dibattito preferito è stato “Muralism. A catalyst for collective culture”, in cui alcuni degli artisti del festival (Erin Holly, Jofre Oliveras e Slim Safont) hanno affrontato il muralismo contemporaneo con uno sguardo molto critico, nonostante loro tre siano considerati, a pieno titolo, rappresentanti di questo movimento. Dal dibattito sono emerse due criticità che io stessa trovo molto pressanti: il fatto che, al giorno d’oggi, la composizione dell’opera tenga maggiormente in considerazione la circolazione della foto su Instagram rispetto a come gli abitanti del quartiere abitino lo spazio pubblico e, quanto queste opere di dimensioni monumentali, finiscano per dominare in modo autoritario il panorama urbano, spesso aprendo la strada a progetti di gentrificazione e di vero e proprio advertising sui muri.
Nuart 2022 ha visto la presenza – tra le altre notevoli – di Martha Cooper. Ti va di parlarci dell’incontro e del tuo punto di vista su “Martha – A picture story”?
Avevo già avuto il piacere di vedere il film di Selina Miles a Stavanger nel 2019. In quell’occasione Martha Cooper ci aveva raccontato di quanto lei ambisse a essere riconosciuta come fotografa anche al di fuori della nicchia dei graffiti. Il documentario racconta tanti altri progetti fotografici realizzati da Martha nel corso della sua carriera, progetti che non hanno niente a che vedere con i graffiti. Da quello fotografico sulla sua città natale, Baltimora, alla documentazione della cultura Giapponese dei tatuaggi, fino alla sua lunga carriera all’interno di National Geographic e di molte altre riviste di fama mondiale. Ne viene fuori l’immagine di una professionista a tutto tondo, che mi ha colpito molto, non perché non ammirassi già le sue capacità di fotografa, ma piuttosto perché ho scoperto il suo lavoro con “Subway Art” e la documentazione della scena newyorkese degli anni ’70. Non immaginavo avesse lavorato a così tanti altri progetti fotografici oltre a quelli che l’hanno resa famosa nel nostro ambiente.
Quest’anno, ad Aberdeen, Martha ha presentato il suo nuovo libro fotografico “Spray Nation,” nato dalla perseveranza di Roger Gastman (il curatore di Beyond the Streets), che ha messo nuovamente mano all’immenso archivio di Martha Cooper, trovando foto che nemmeno lei stessa si ricordava di aver scattato, come ad esempio la foto di una giovanissima Madonna che bacia Futura2000 in un club newyorkese all’inizio degli anni ‘80. Martha ci ha detto che questo libro è pieno di foto scattate prima dell’uscita di “Subway Art,” foto che lei aveva archiviato e si era scordata di avere. Durante la pandemia, quando “Spray Nation” stava già andando in stampa, Martha ha ristrutturato il suo studio, portandovi le foto che teneva in uno dei suoi storage più grandi. Durante questo trasloco ha ritrovato così tante altre foto interessanti che Roger Gastman ha deciso di fermare la stampa e rimettere mano al libro! A me ha colpito molto l’immagine di questo archivio infinito dislocato in diversi storage units in giro per New York City. Un archivio così vasto che neppure Martha Cooper si ricordava cosa aveva scattato nel corso della sua lunga carriera, neanche quando il soggetto della foto sono due persone così famose come Jean-Michel Basquiat e Madonna.
Che rapporto c’è tra Nuart e la città di Aberdeen? L’Arte Urbana entra a gamba tesa nei luoghi della collettività. Come è stato recepito il festival dagli scozzesi? E come è cambiato, se lo è, il loro rapporto negli anni? Soprattutto dopo due di stop.
Nuart è arrivato ad Aberdeen già forte dell’esperienza e del rispetto maturati a Stavanger e quindi, sin dalla prima edizione (nel 2017), ha potuto portare in città alcuni tra gli artisti più bravi e famosi a livello mondiale. Gli scozzesi hanno capito da subito la qualità della proposta artistica del festival, e l’hanno accolto con molto entusiasmo. Nel 2020, quando il team di Nuart e gli artisti in programma non hanno potuto viaggiare verso la Scozia, i volontari locali hanno portato avanti una sorprendente “Lockdown Edition”, attaccando sui muri della città poster prodotti e spediti dagli street artists che avrebbero dovuto partecipare al festival (Biancoshock, Nuno Viegas, Icy & Sot, Jofre Oliveras e molti altri).
Tutte le volte che sono andata ad Aberdeen per seguire il festival, sono sempre rimasta molto impressionata dalla curiosità e dall’interesse mostrato dagli abitanti, che partecipano numerosi ai tour di street art, così come alle conferenze di Nuart Plus.
Per quanto riguarda il rapporto con il contesto urbano, la città di Aberdeen è famosa per i suoi edifici in granito e per questo si è guadagnata il nome di “Silver City.” Il contrasto tra il colore delle opere e il grigio del granito, che tra l’altro ha al suo interno una particolare sabbia dorata che riflette la luce, è quindi di grande impatto.
Infine, per te come è stato riconnettersi con l’Arte Urbana. Come hai vissuto da questo punto di vista i due anni di pandemia? E come invece è stato rientrarci a pieno?
Dato il lavoro che faccio, per fortuna, in questi due anni non mi sono mai totalmente ‘sconnessa’ dall’arte urbana.
Quando è iniziata la pandemia vivevo ad Amsterdam, dove lavoravo per il museo di street art e graffiti STRAAT, che proprio nel 2020 ha aperto al pubblico. Quindi, nonostante io non abbia potuto viaggiare per raccontare l’arte urbana sul mio blog, il 2020 è stato comunque un anno ricco di esperienze, incontri e documentazione del processo creativo di moltissimi street artists.
Poi, nel corso del 2021, mi sono trasferita in Italia e, tra una zona rossa e l’altra, ho avuto modo di vedere tanta arte urbana nel nostro paese.
Quest’anno, finalmente, i festival di street art sono ripartiti a pieno regime, affiancando alla produzione dei murales anche eventi come tour, workshops e conferenze che coinvolgono la cittadinanza, che poi sono le persone che continueranno a convivere con le opere quando i riflettori del festival si saranno spenti. Io credo sia molto importante per un festival creare momenti di incontro e discussione con gli artisti e coinvolgere gli abitanti su più livelli, quindi sono contenta che queste attività siano finalmente riprese.
Infine, c’è da dire che in questi due anni gli street artists non si sono affatto “sconnessi” dalla loro pratica, anzi, sono stati particolarmente ricettivi nel tradurre sui muri delle città le battaglie sociali, politiche e ambientali innescate dalla pandemia e successivamente dal movimento Black Lives Matter. Pur non avendo potuto vedere molte di queste opere dal vivo, ne ho seguito lo sviluppo attraverso il web e credo che in quest’ultimo periodo la street art sia stata più connessa che mai sia alle sue origini che alle sfide del nostro tempo.