“Questa mostra potrebbe essere rimandata”, la nuova personale di Mister Caos a Venezia

di Camilla Castellani

“Questa mostra potrebbe essere una figata”, poi, borissianamente, “Questa mostra potrebbe essere smarmellata” e infine “Questa mostra potrebbe essere confermata”. Nelle ultime settimane Mister Caos pubblica sui suoi social network una serie di locandine, tre per la precisione: ciascuna con una correzione in rosso, proprio come nel migliore dei peggiori temi della nostra adolescenza. Ed è così che “una figata”, “smarmellata” e “confermata” crossano sempre la stessa parola: “rimandata”. Potrebbe suonarci forse un po’ strano, sicuramente curioso, ma per Caos, che anche in quest’occasione scompone e ricompone i codici linguistici dell’arte, è tutto regolare.

QUESTA MOSTRA POTREBBE ESSERE RIMANDATA” – a cura di Adolfina de Stefani e Mariano Bellarosa – è infatti il titolo della sua nuova personale che si terrà da domani al 28 febbraio 2021 alla galleria Visioni Altre in Campo del Ghetto Novo 2918 a Venezia. Ma, vista la situazione caotica degli ultimi mesi e forse perché Caos lo è di nome ma anche un po’ di fatto, l’esposizione ha una storia tutta sua. Così noi di Scratch ne abbiamo approfittato per fare a Mister Caos qualche domanda in più.

“Questa mostra potrebbe essere rimandata”. Hai scelto l’arma migliore per affrontare questo periodo, l’ironia. Ma incuriosisce sull’organizzazione di una personale: come è nata? È stata un’idea maturata nel primo lockdown?

“Questa mostra potrebbe essere rimandata” – QMPER – nasce da una personale in sospeso fissata per marzo 2020. La mostra era pensata per chiudere un ciclo di lavori ma – a causa dell’emergenza sanitaria – è stata rimandata tre volte. Perciò sì, l’ironia è stata il mezzo per far fronte a questo periodo – seppur nel pieno rispetto di ciò che sta accadendo. Il titolo e l’organizzazione in sé vogliono essere uno scherno alla situazione: abbiamo giocato con l’incertezza e questa dovrebbe essere la “versione definitiva”, insomma la volta buona. Siamo andati contro ogni logica di produzione ma non solo. Nel titolo si cela molta autoironia ma anche la volontà di dissacrare proprio il mondo delle gallerie: ci sono voluto entrare a gamba tesa. Con le personali sento l’esigenza di chiudere dei cicli, è qui che poesia di strada e poesia si incontrano. Nel momento in cui io vado in strada mi rapporto con tutto e con tutti: gli abitanti, il territorio; studio i luoghi. Nel momento in cui sono con un mio testo personale non lo “butto” in strada ma ricerco un modo per pubblicarlo: è come se tirassi le somme unendo la ricerca intimistica con diversi altri lavori.

Sei solito pubblicare in strada e studiare tanto i luoghi in cui andrai a lavorare. Com’è stato rapportarsi con gli spazi di una galleria? E come hai “adattato” la tua poesia?

Proprio non adattando i miei lavori. Non posso portare poesia di strada in galleria, così come non potrei portarci un graffito. Io espongo delle ricerche, degli studi visivi. Si tratta di sperimentazioni e in quanto tali nascono da un’empatia, da un feeling, non sono repliche di qualcosa che c’è già e deve – voglio – che rimanga lì dov’è. I testi per un’esposizione sono diversi, lavoro molto sulle figure retoriche ed eseguo dei report dalla strada. Sento proprio un’esigenza espressiva diversa da quando sto là fuori.

Prima di dare loro visualità, le tue poesie nascono nero su bianco? O sono una tua risposta all’empatia con luoghi e strade?

Tutto nasce da un legame. C’è una fetta di poesia che lascio nero su bianco e un’altra che nasce in strada. Ti faccio un esempio: in ogni posto in cui vado scrivo cartoline. Mia nonna è della Basilicata, abita sui monti, quindi anche in estate accende la stufa. Da lì ho creato micro giochi di parole su quei momenti che ho riportato sulle cartoline. Sono immagini nate per quel contesto: vivono e hanno senso di esistere per quella situazione lì. Pensa a ViaVai (ne abbiamo parlato qui, ndr).

Cosa ti affascina delle parole? E soprattutto, del vederle dipinte in svariati modi, grandezze e a disposizione non solo del pubblico ma anche del tempo?

A me non piacciono le parole (ride, ndr). Cioè no, mi piacciono un sacco in realtà ma ci sono arrivato con il tempo. Sono dislessico e le ho “conosciute” meglio una volta maturate le mie compensazioni: così ne sono rimasto totalmente affascinato. Da certi errori, ad esempio, creavo delle allitterazioni; quindi l’amore per le parole nasce da un odio. Mi piacciono molto i suoni: è come fare rap ma facendo graffiti, e questo comporta essere un po’ fuori dal coro. Vedila così: ho scelto Caos con l’idea del caos in generale. Dario è il ragazzo normale, dentro invece è Caos. La struttura potrebbe essere la stessa delle lettere: dalle parole puoi tirare fuori un casino di cose, ma di fatto la lettera in sé è un po’ asettica.

L’idea di scrivere in strada è un modo di relazionarmi. Quando ho iniziato, i graffiti così come l’hip hop sono stati l’espressione del mio disagio. Ora è il rapportarmi coi luoghi e i cittadini che mi porta a ciò che voglio scrivere: è da qui dipendono le grandezze e le disposizioni delle parole. Infatti quando posso mi faccio aiutare da chi vive intorno al luogo in cui sto dipingendo perché per me l’arte deve avere per forza una matrice sociale, di scambio con il pubblico. Io devo parlare a qualcuno e senza componente relazionale – il “con” – non serve a niente. La contaminazione con tutto quello che sta attorno è la chiave per raggiungere una condizione di totalità. Pensare i miei lavori in rapporto con il tempo è qualcosa di bellissimo: pensa che metà dei miei pezzi non ci sono più oppure li hanno crossati, eppure è pazzesco sapere che lì c’è o c’era qualcosa di tuo, purché sia “servito” a qualcosa.

“ViaVai” è la poesia più grande del mondo. Vedremo qualcosa di suo a Venezia? E se sì, che effetto ti fa essere riuscito a portare “il viavai che io chiamo casa” in una personale?

“ViaVai” è il mio lavoro di punta, la mia residenza artistica lunga 27 anni, e l’idea di portare un pezzettino di quella poesia a Venezia mi fa venire i brividi: è emozionante sapere di essere riuscito a spogliare San Donato dall’idea di crimine che gli stava attorno. Tutti i servizi che sono usciti negli ultimi anni erano un susseguirsi di notizie di piazze di spaccio e aneddoti simili: un sentimento di malessere e di diffidenza che era anche comune tra gli stessi cittadini a seconda della zona da cui si proveniva. Essere riuscito a portare Rai3 a San Donato per un altro motivo, totalmente diverso, anzi con obiettivi completamente opposti mi rende molto felice.

Lavori con le parole, tanto che sono diventate la tua arte: hai voluto fare del linguaggio il tuo soggetto figurativo?

Direi grafica pura. Sono un grande appassionato di typewriter. In strada mi affido di più alla grafica pubblicitaria con l’idea sempre di non perdere l’immediatezza e la leggibilità.

Poesia di strada come provocazione del pensiero: chi o cosa inviti a dialogare?

La provocazione al pensiero è tutta la stratificazione di linguaggi che va a toccare dei tasti. Non è costretta ad un significato solo. La provocazione del pensiero sta nel dissociarsi da una tendenza della Urban Art che sta nascendo adesso spesso legata più all’estetico che ad altro. Io sento la necessità di creare un dialogo, o comunque di darne l’input o gli spunti per iniziarlo.

“Questa mostra potrebbe essere rimandata”: le tue poesie saranno solo all’interno o anche all’esterno della galleria Visioni Altre? Hai in previsione qualcosa di site specific per Venezia?

Per Venezia sono programmati due interventi. E sempre per ironizzare con l’incertezza: la realizzazione di uno è certa, sul canale, mentre l’altro ha un’interfaccia con la popolazione locale quindi si vedrà in base alle nuove disposizioni.

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