Cosa non va nel Vademecum per la Street Art del Comune di Milano

di Clara Amodeo
Umarell che sbircia in un cantiere

Le intenzioni erano buone: “stabilire una procedura che possa essere agita con reciproca correttezza da artisti, associazioni, gruppi di cittadini e Amministrazione Comunale”, mi aveva detto l’assessore alla Cultura del Comune di Milano Filippo Del Corno in un’intervista di questa estate

E in effetti, un chiarimento definitivo e ufficiale sull’iter amministrativo per l’esecuzione di opere su superfici private e pubbliche c’è stato, oltre a una graduale facilitazione di certi processi. Peccato, però, che il Vademecum per realizzare opere di Street Art nel territorio del Comune di Milano, pubblicato nel gennaio 2021 sul sito del Comune dopo l’apertura del nuovo ufficio della Direzione Cultura e della pagina web Arte negli Spazi Pubblici, abbia anche burocratizzato, ingabellato (e, per certi versi, ingabbiato) quegli interventi artistici che non si collocano né tra i muri liberi né tra le facciate cieche di natura commerciale. Ma che, nel tempo, sono stati tra i pochi in grado di donare a Milano non solo pezzi di storia del movimento, ma anche veri e propri eventi culturali che hanno creato aggregazione sociale e che hanno lasciato tracce di cui oggi la nostra città può farsi vanto, in Italia e in Europa.

Ma di cosa stiamo parlando? Per capirlo dobbiamo tornare indietro al 20 gennaio scorso: in quell’occasione KayOne, nome storico della città e colui che, assieme a Stradedarts, ha donato a Milano progetti del calibro di Street Players, ha pubblicato un post su Facebook. Qui ha enucleato tre temi, solo apparentemente tecnici, che vengono definiti “cambiamenti indispensabili a questo regolamento, per la libertà e indipendenza del nostro linguaggio e per quel che è possibile per non inasprire ulteriormente l’attacco legale nei confronti degli addetti ai lavori”.

Autorizzazione pubblica (su spazi privati)

Primo tema proposto dal writer (e, con lui, anche da una lunga rappresentanza social di artisti, addetti ai lavori o semplici sostenitori) è l’esenzione dalla presentazione obbligatoria e dall’autorizzazione all’esecuzione di qualsiasi progetto per la realizzazione di opere su muri di soggetti privati. In effetti, perché mai una pubblica amministrazione dovrebbe mettere becco autorizzativo su opere che vengono viste, concordate e approvate già con e dai privati? Chi si occupa di Arte Urbana sa bene che a nessun artista salterebbe mai in mente di proporre (specie a dei privati) opere con contenuti offensivi, discriminatori o intolleranti, se questa è l’ansia del Comune. Non solo. Nell’apposita modulistica “Comunicazione di realizzazione opere di street art/muralismo su superfici private o pubbliche” si richiede, tra le altre cose, che vengano presentati i bozzetti delle opere che si vorranno realizzare, con tanto di render sui muri: una richiesta poco funzionale, specie se a dipingere sono più dei soliti 4 amici al bar. “Alle ultime edizioni di Street Players – mi dice KayOne – hanno partecipato circa 500 artisti provenienti dall’Italia e dall’Europa: fai un po’ tu il calcolo…”.    

Occupazione del suolo pubblico

Il secondo punto sottolineato, invece, riguarda il tema spinoso dell’occupazione di suolo pubblico che, di fatto, sembra davvero tagliare le gambe a chi con jam ed eventi sostenuti da sponsor è riuscito a coniugare l’annosa questione della produzione artistica da una parte e del riconoscimento del valore di un progetto dall’altra. Secondo il Vademecum, infatti, “le occupazioni  finalizzate alla realizzazione di murales che non hanno carattere pubblicitario sono esenti dal pagamento del canone COSAP”. AKA, pagano (a scalare) tutti gli altri, ossia quelli che per realizzare i propri interventi devono dotarsi di sponsor e, dunque, di loghi da esporre. Ma è possibile che tra una jam del calibro di Amazing Day, che, tra moltissime opere di qualità, dipinge anche i loghi degli sponsor, e la facciata cieca di una multinazionale che non fa altro che vergare il proprio marchio a grandezza parete non ci sia alcuna differenza? “Le nostre – continua KayOne – sono sponsorizzazioni che servono per garantire la vita di jam in cui tante persone dipingono” e tassarle significa affossarle, mettendone a repentaglio la loro reiterazione nel tempo e, in generale, la loro stessa esistenza.

Street Art a Milano: una questione di sicurezza

Ultimo (ma non meno importante) elemento sottolineato è il tema della normativa sulla sicurezza. Per esso si entra un po’ più nel tecnico e viene chiesta l’esenzione dall’adeguamento alle norme di sicurezza Dlg. 81/2088 e s.m.i. per qualsiasi attività di Graffiti Writing o Street Art eseguita a terra. Ossia? A spiegarlo è Vandalo, altro nome storico della scena milanese, che, in qualità di architetto, ha pubblicato un altro post su Facebook dove ha messo in luce le anomalie legate a temi cantieristici quali POS, PSC, dispositivi di protezione individuale, piattaforme di sollevamento o ponteggi montati da personale specializzato, assicurazione e DURC. Per farla breve, una serie di gabbie che, ancora una volta, non vanno tanto a penalizzare gli interventi di natura commerciale (dove i brand coprono tutto) e nemmeno la “giungla” dei muri liberi, quanto le famose jam di cui sopra: esse, nelle intenzioni del Comune, dovrebbero, solo per citarne alcune, fornire guanti e maschere a tutti (tutti) i partecipanti, dotarsi di assicurazione specifica per le opere edili e lasciare dipingere solo chi ha fatto un corso per la sicurezza. Mia mamma direbbe “ufficio complicazioni cose semplici”.

In tutto questo bailamme, mi sorgono spontanee un paio di domande. Prima tra tutte, possibile che nei lavori del famigerato tavolo (a cui, tengo a sottolinearlo, anche io ho partecipato, ma per il tema della comunicazione, e non delle procedure, abbandonando spontaneamente i lavori dopo un anno di nulla di fatto) nessuno abbia deciso di interpellare gli organizzatori delle jam milanesi, fosse anche solo per un parere? E dire che la rappresentanza artistica non è mancata.. forse gli artisti presenti non si sono fatti troppo sentire? O forse hanno perorato altre cause? Già, perché a ben vedere pare davvero che a Milano i muri commerciali stiano piano piano mangiando terreno all’Arte Urbana, dando una sorta di “canone” per normare quella che prima era a tutti gli effetti una creativa zona grigia e fermandosi solo davanti ai muri liberi (che sono il frutto di una delibera del 2015 e non, come hanno sbandierato diverse testate di settore, una novità dell’ultimo mese). Se così fosse, sarebbe un vero peccato: non solo perché significherebbe che si sta avverando la profezia di una città sempre più in balia di brand e agenzie di marketing, ma anche perché si rischierebbe di perdere quel patrimonio culturale e artistico che, nel tempo, sono state le jam. Il risultato? Una vera e propria forchetta: da una parte la spersonalizzante legalità dei muri commerciali, dall’altra l’incapacità, per tutti gli altri, di sottostare a certe assurde regole, con il rischio di essere presi di mira dalle istituzioni per qualunque cavillo fuori posto. Same old story, non trovate?    

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