Ammetto che la nostra conoscenza è partita in sordina. Era il marzo 2017 quando Ivana De Innocentis, con la quale avevo tenuto un intervento al decimo anniversario di Street Art Sweet Art al PAC di Milano, mi indicò gli astanti e mi disse: “Dopo ti presento Riky Boy”. La nostra conoscenza, per la verità, è avvenuta una settimana dopo, all’evento “Ospite raro, ospite caro”, durante la terza edizione di Studi Festival: allo studio Douglas Alberto Nave, infatti, Riky Boy e io abbiamo avuto l’occasione, insieme a Espi, Libri Finti Clandestini e molti altri, di conoscerci meglio, complice anche l’abbondante quantità di alcol. Da quel momento abbiamo iniziato a seguirci “a distanza”, tra i social e le sue opere che, piano piano, iniziavo a riconoscere in giro: la massicciata della ferrovia di Lambrate, il castello di Zak (in cui è ben visibile la sua evoluzione stilistica), i suoi sticker messi più o meno ovunque.
Ci sono voluti anni prima che Riky Boy e io potessimo incontrarci e chiacchierare di nuovo. A dicembre dell’anno scorso, per la precisione, quando, ospitati dal Madama Hostel & Bistrot per la presentazione del libro “La fabbrica della Street Art. L’esperienza al castello di Zak”, Riky Boy ha raggiunto WallsOfMilano (l’autore) e me al tavolo per salutarci. E se la figuraccia è stata grande (nessuno dei due l’ha, in un primo momento, riconosciuto), lo stupore e infine il piacere di essere di nuovo insieme sono stati massimi. In quell’occasione, infatti, ho (ri)trovato un artista (oltre che un amico) maturo e consapevole, fermo sui suoi princìpi (e grazie al cielo, vista anche la sua giovane età) ma perfettamente in grado di leggere la realtà per quella che è: un prisma multiforme di esperienze e occasioni. Ad avermi colpita è stata anche la grande consapevolezza di sé e del suo valore, senza mai peccare di immodestia o sfacciataggine: Riky Boy è quell’artista, lontano dalle logiche “di palazzo” tipiche delle grandi città (e Milano è una di queste), che fa la sua cosa e la fa bene, costruendo, mattoncino dopo mattoncino, la sua identità di artista e di produttore di contenuti.
Figuratevi, insomma, quanto bene mi sia presa quando mi ha detto: “Sai? Mi hanno proposto una residenza artistica in Iran. E io ci voglio andare”. Boom. “E me lo dici così?”, gli ho risposto. Ne è seguito un vero e proprio terzo grado, domande alle quali Riky Boy ha sempre risposto con calma e fermezza. Qualità, poi, che gli sono servite per decidere di partire per questa esperienza umana e artistica più unica che rara. Qui di seguito non riporto le domande di quella sera, ma quelle che gli ho posto appena è rientrato per parlare di quello che ha potuto vivere in terra persiana. E fidatevi: le sue risposte non fanno altro che confermare che quanto ho scritto fino a qui è del tutto vero.
Come sei entrato in contatto con gli organizzatori della residenza?
Nulla che entrasse nei miei piani, quanto piuttosto una richiesta inaspettata che ho accolto volentieri e con forte curiosità. Tutto è stato possibile grazie alla fiducia instaurata fra me e il team di Kill the Pig ovvero Elena Nicolini e Carlo Vignapiano, curatori di residenze e progetti d’arte sul territorio Italiano, i quali conobbi nel 2016 in occasione di una residenza che vedeva protagonista l’Artista Spagnolo Gonzalo Borondo il quale mi invitò e gli feci da assistente per la realizzazione di “Cenere” solenne intervento all’interno della cappella funebre del cimitero Selci in provincia di Rieti. Da quel momento in poi abbiamo iniziato a conoscerci e collaborare, da qui la proposta di partecipare a Urban Arts Unite, progetto ideato e supportato dall’Ambasciata Italiana a Tehran, nel Gennaio 2020. Colgo l’occasione per ringraziarli di cuore.
Ricordo che all’inizio abbiamo avuto uno scambio un po’ acceso sull’opportunità o meno di raggiungere un luogo in cui vigono repressione e teocrazia. Per altro, il periodo della tua partenza per l’Iran è coinciso con l’incidente diplomatico americano: cosa ti ha spinto, definitivamente, a partire?
Mi hanno sempre detto che il mondo all’infuori dell’Europa e in particolare nel Medio Oriente è tutt’altro che un simpatico villaggio turistico a 5 stelle di Dubai, quanto piuttosto un agglomerato di spontaneità, affascinanti contraddizioni e tensioni. Le preoccupazioni di chi mi stava vicino erano evidenti, ma ho sempre dato fiducia ai committenti. Credo molto nei segni e pecco di menefreghismo, perciò aldilà di una accesa discussione con il mio nucleo familiare che ha portato poi ad una approvazione, ho deliberatamente scelto di non comunicare a nessuno altro la mia partenza. L’Ambasciata Italiana a Tehran si è dimostrata attenta e disponibile nei miei confronti sin dal primo contatto, nello specifico il Primo Segretario Vincenzo Russo Spena e l’Ambasciatore Giuseppe Perrone che ringrazio nuovamente per l’ospitalità e la comprensione, nutrendo un forte amore per il paese che li ospita, dando vita a questo progetto inusuale quanto necessario per il territorio iraniano. Era tutto in forse sino alla tregua dichiarata da Trump una settimana prima di partire, la quale ha scaturito un sollecito da parte del consolato a partire.
Quali sono state le loro richieste e che cosa ti lasciava perplesso?
Richieste che in realtà non mi hanno ostacolato, in quanto si richiedeva di non rappresentare figure cristiane e nudi (prevedibile) e come ben sai, il mio immaginario di adesso è distante da queste rappresentazioni. Temevo solo di non poter realizzare pugnali o forme di icone. Il bozzetto è mutato più volte, soprattutto dal momento in cui ero lì.
So che sei un po’ allergico a questa domanda ma io te la pongo lo stesso: cosa hai deciso di rappresentare e perché?
L’allergia mi attanaglia ma stranamente adesso non ho sintomi: Libertà – Potere – Scelte – Potere – Libertà, il tutto incompiuto e censurato, da qui il titolo “XXXXX”, ipotesi di una doppia censura che ne esalta gli elementi. Il perché è scontato quanto privato, il processo e la ricerca sono state le cose che più mi hanno divertito: ho voluto ricreare un simil cartellone pubblicitario. Premetto e confesso di aver contribuito ad aggiungere “disturbi” pubblicitari, dato che le strade di Tehran ne sono sommerse. Ciò mi ha scioccato. Per me i cartelloni pubblicitari e propagandistici non erano nient’altro che forme grafiche di un alfabeto a me incomprensibile. Perciò perché non ricreare pochi elementi grafici, in grande scala, con un alfabeto mio, quindi probabilmente incomprensibile a loro, per giunta inclinato verso destra da dover sembrare lettere persiane? Il progetto Urban Arts Unite prevede l’esposizione di due tele di grandi dimensioni per due mesi, in questo caso una mia ed una di Nirone (artista iraniano) al di fuori delle mura del Consolato Italiano nonché residenza dell’Ambasciatore, dopodiché vengono rimosse per far spazio ad altri due artisti, unoa iranianoa e unao italianoa, ma ora come ora la vedo dura che il progetto prosegua senza intoppi, quindi probabilmente starà appesa più tempo del previsto. Per l’appunto l’intervento non permanente rispecchia le credenziali di un cartellone pubblicitario.
Come ti sei trovato nei tuoi giorni di permanenza in Iran? Hai avuto modo di avere contatti con la scena artistica locale non commissionata o hai dovuto passare la gran parte del tempo in ambasciata?
Devo dire che parlando di accoglienza hanno vinto, è un popolo molto ospitale e gentile, diversamente da quanto si sente in giro. Giustamente non per colpa loro, vivono in un regime teocratico molto rigido e restrittivo nei confronti di donne, omosessuali ecc.. con leggi a noi impensabili. Inaspettatamente fa di loro persone aperte e accoglienti nei confronti degli stranieri. In realtà in ambasciata ho trascorso solo la serata di presentazione, mentre gli altri giorni quando non dipingevo nello studio di Nema o Nirone, giravo per la capitale con il driver personale Mohsi, figura non scontata in questa esperienza dato che grazie a lui ho conosciuto meglio la situazione attuale del paese. Ho avuto modo di conoscere Shaqayeq Ahmadian, una ragazza della mia età, artista molto brava e attiva con la quale spesi una giornata di chiacchiere e scambi nel suo studio a sud di Tehran. Purtroppo nessun writer in lontananza. Un incontro casuale è stato quello con Alessandro Di Battista (l’ex deputato M5S, ndr), di passaggio per Tehran, con il quale ho scambiato opinioni e visioni sull’Iran che a suo avviso è un paese incredibile composto da un popolo che non ha eguali, anzi molto più vicino a noi di quanto si possa pensare.
Chi era l’altro artista che ha partecipato con te alla residenza e come ti ci sei trovato? Avete in mente di collaborare per altri nuovi progetti?
Un amico trovato semmai, Nema detto Nirone, artista attivo nella scena locale, ultimamente non molto in strada per via delle ovvie ripercussioni del regime. Diciamo che è possibile dipingere, ma solo quello che vuole il governo, infatti la “street art” presente a Tehran è spiazzante per i contenuti politici-religiosi e sicuramente più propagandistica rispetto a quella europea e i pochi graffiti ai lati delle autostrade sono in realtà pubblicità. Nema vive a circa 50 km dalla Tehran, vicino a Pardis, piccola realtà molto dislocata, silenziosa e più conservatrice rispetto alla capitale, la quale ogni giorno dovevo raggiungere per lavorare nel suo studio alla grande tela. Nel complesso non ci sono parole per descrivere ciò che ho vissuto e imparato stando con lui e gli altri componenti della casa; Fateme la fidanzata, Mahsa, Aliar e Shanin. Essendo miei coetanei hanno la necessità di scoprire il mondo, ma richiedere e ritirare un visto con la stessa facilità con la quale riusciamo noi in Europa non è così scontato. Dovremmo sentirci più fortunati. Vorrei rivederlo presto, per un progetto o un bel viaggio in giro per l’Iran.
In generale, come reputi che sia andata la tua esperienza iraniana? Se ti ricapiterà l’occasione la rifarai?
Apro una parentesi personale: aderire al progetto è stato molto simile ad una ripartenza. Dopo un periodo di 3 anni distante dalle commissioni e da interventi murali autorizzati, di conseguenza distante anche dalle parole riqualificazione e gentrificazione (eheheh) ho voluto prendere la palla al balzo in un mio momento apparentemente di stallo, quasi da spettatore di tutto ciò che mi circondava. Non essendoci molti svaghi a Tehran, ho riflettuto molto sulla mia situazione e mi sono ricalibrato. Infine giunto in Italia ricevetti un messaggio dal mio carissimo amico (uno dei pochi al corrente di quello che stessi facendo) Yghor Kowalvsky, componente del trio Libri Finti Clandestini, il quale mi scrisse: “Tra le proteste represse nel sangue per l’aumento del prezzo della benzina, attentati e conseguenti guerre atomiche sul punto di scoppiare, terremoti, clima di tensione per le elezioni e coronavirus, hai beccato una finestra libera mica male per andare in Iran!” Ebbene la finestra ormai si è chiusa, c’è la pandemia e la clausura anche lì purtroppo. Quindi in maniera non scontata rispondo che è stata una grande esperienza, presa di petto. Ovviamente ci ritornerò.