Gaza Is Alive Experience Album: il disco (e il racconto) sei mesi dopo

di Clara Amodeo

Ve lo ricordate Gaza Is Alive, il progetto a base di Hip Hop che una cordata di associazioni ha portato questa estate nella città di Gaza con l’intento di rendersi un “metodo per affrontare le sofferenze psicologiche dei minori che subiscono gli effetti della guerra”? Ebbene, Gaza Is Alive non si è fermata lì.

Da settimana scorsa, infatti, è uscito “Gaza Is Alive Experience Album”, il disco, opera di Oyoshe, che è frutto dell’esperienza vissuta quest’estate a Gaza. “Un album – raccontano gli organizzatori – nato durante i laboratori Hip Hop-pedagogici con i giovani Gazawi con cui Oyoshe, tramite suoni e parole, ricostruisce gli scenari per traghettarci in quella piccola fetta di mondo conosciuta come la Striscia di Gaza”. Suoni synth, richiami alla musica palestinese, beats hip hop e racconti in rima, disponibili in CD, in tutti gli store digitali e presto anche in vinile.

Ma, esattamente, che cosa è successo sei mesi fa, quando amici, prima ancora che associazioni, sono partirti alla volta di Gaza con un documento di circolazione in qualità di personale umanitario? A raccontarlo è Alberto, proprietario dello storico Wag Shop di Milano e parte dell’associazione culturale Grafite HB.

“Ad avere preso parte al progetto siamo stati noi del gruppo Hip Hop, il gruppo psicologico con mediatrice culturale, la ONG Palestine Children’s Relief Fund (PCRF) e la locale CB Crew. Dopo non poche traversie, siamo entrati in possesso di una vecchia scuola, ora sotto i bombardamenti, e da lì, in gran fretta, abbiamo iniziato i nostri workshop con una trentina di ragazzi da gestire più altri ragazzini del quartiere. Il programma ha previsto corsi di arte (intesa come disegno con finalizzazione nel graffito), danza (attività che è stata più facile da portare avanti, trattandosi di attività fisica pura con preparazione atletica e ginnastica) e musica (con l’ausilio di programmi e pc). Dopo un open day di presentazione, il vero successo è stato vedere che tutti volevano fare tutto: abbiamo dunque creato tre classi, mischiando le età e facendo fare ai gruppi una rotazione quotidiana delle attività, il tutto per una decina di giorni”.

“La parte artistica – approfondisce Alberto – anche se la mettiamo sotto la parola “graffiti” in realtà ha previsto lo sviluppo di una metodologia che partisse dal nome, scritto sia in arabo sia in caratteri occidentali, e che ponesse importanza alla resa estetica di quest’ultimo, attraverso ordine ed equilibrio nella scrittura, usando così spazi e colori. Ci siamo resi conto che molti hanno voluto usare un nome d’arte, che si prefiggeva di essere quell’alter ego in grado di vivere al di là della realtà, mentre alcuni hanno ritenuto di non usarlo, forse per riconoscere fortemente il proprio essere e il proprio nome. Questo lavoro si è poi concretizzato sul muro, davanti a spray e pennello”.

E adesso? “Questo progetto è ancora adesso sperimentale: quello che abbiamo fatto fin qui è stato valutare, tra errori e difficoltà, se il percorso intrapreso possa davvero configurarsi come una terapia. Quello che succederà in seguito sarà dunque di fare proseguire a distanza le basi che abbiamo gettato per una durata di tre mesi, durante i quali gli incaricati di ogni argomento o materia proseguono con gli insegnamenti. Certo, non è sempre facile: se la break dance è il tema in cui si sono visti più risultati e più evoluzioni (questo perché il progetto nasce attorno alla CB crew), l’arte e la musica non sono più molto incisive”.

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