CAPuS – Conservation of Art in Public Spaces, alla ricerca di un protocollo conservativo innovativo per l’arte urbana

di Clara Amodeo

Sempre più spesso, parlandone sia con gli artisti sia nell’ambito dei tour, mi capita di affrontare un tema molto vicino alla questione artistica, non sempre apprezzato dalla comunità a essa afferente e (o forse perché) solo all’apparenza molto distante dalla strada: parlo del restauro, sia esso rivolto ai Graffiti o alla Street Art. La reazione è più o meno sempre la stessa: non appena introduco il tema, diversi nasi si storcono e la mente di tutti corre a una pratica antiquata che, se trasposta ai giorni nostri, rischia di “sviare il senso della strada” fino a portare ad aberrazioni quali quella di Bologna 2015.

Ma è proprio qui che casca l’asino: posto che il restauro del contemporaneo sia qualcosa di assolutamente diverso rispetto a quanto è stato teorizzato per tutte le epoche precedenti (motivo, questo, che rende l’operazione bolognese non solo anacronistica ma anche illecita), questa pratica deve ancora scontrarsi (o, meglio, confrontarsi) con movimenti culturali e artistici che sono ancora in fieri. Insomma, il restauro di Graffiti e Street Art consta, oggi, anche di ricerca in vista di teorizzazioni utili a meglio indicare un modus operandi globale che possa essere divulgato sia a livello scientifico sia, soprattutto, a livello accademico.

Ed è proprio da qui che ha preso vita CAPuS – Conservation in Art in Public Spaces: il progetto nasce nell’ambito della call ERASMUS+ Alleanze per la conoscenza, e vede come protagonista un partenariato internazionale composto da sette università, cinque aziende, un’associazione, un museo, un centro di ricerca e due Comuni italiani con l’obiettivo di definire un protocollo conservativo innovativo per l’arte urbana. Portavoce di CapuS è l’associazione no profit CESMAR 7, Centro per lo Studio dei Materiali per il Restauro, che, attualmente presieduto dalla Conservatio Scientist Ilaria Saccani, dal 2000 si occupa di ricerca e didattica sul tema del restauro e della conservazione, organizzando corsi e seminari, e di divulgazione con congressi internazionali e pubblicazioni.

Il metodo di lavoro scelto è, a mio avviso, il migliore in questo campo: prima di tutto, infatti, si è deciso di portare avanti un dialogo strutturato con gli artisti e solo successivamente, tramite la mappatura del degrado, identificare i prodotti idonei o altre metodologie conservative (come la creazione di archivi digitali) al fine di arrivare a stabilire un protocollo operativo applicabile a livello internazionale; oltre a ciò è prevista l’attivazione di un modulo didattico da inserire tra le attività curriculari delle università afferenti al consorzio.

Siamo molto distanti dallo scetticismo iniziale, no? Ma forse, è ancora più interessante sapere quali opere italiane sono state attenzionate dal progetto CapuS. A rispondere per la città di Reggio Emilia è la stessa Ilaria Saccani di CESMAR7: “Su Reggio Emilia – mi dice – abbiamo preso in esame tre casi, dai quali abbiamo deciso di tenere fuori le Officine Reggiane di cui, tuttavia, faremo un racconto. Il primo intervento preso in esame è, dunque, quello delle case operaie di Mancasale, oggetto nel 2010 dell’intervento “¡MURALES!. Gli Artisti di Proyecto Ritual alle Case Operaie di Mancasale”, a opera di Proyecto Ritual con gli spagnoli Kenor, Zosen e H101 e l’italiano Göla, capeggiati da Simone Ferrarini. Altre opere sono, poi, quelle del centro sociale Pigal, del 2012, su cui ha lavorato lo stesso Göla, e quella di Ubuntu, realizzata in occasione del Mandela Day del 2018 su una scuola a Reggio”.

Altra città, altro giro di studio: a Milano, infatti, le opere prese in esame sono altre tre. A raccontarmele è Alessandra Tibiletti, anche lei di CESMAR7: “Le opere prese in esame sono quelle di Niguarda Antifascista e quelle dedicate a Nelson Mandela e Khaled al-Asaad alla Fabbrica del Vapore. Le ragioni che ci hanno spinti a guardare con interesse queste tre sono tante: da questioni pratiche (tra cui accessibilità e microprelievi, foto, documentazioni, mappatura dei degradi) al fatto che sono opere realizzate a più mani. Soprattutto nel caso di Mandela, infatti, gli artisti hanno agito secondo un metodo che loro stessi hanno definito “la milanesata”, ossia una modalità che non prevede distinzione tra opere ma un’intersecazione artistica frutto di un’amicizia umana. Diverso ma altrettanto interessante è il caso di Niguarda: qui, infatti, è tenere in considerazione sia la committenza sia la risposta della città alle diverse sovrapposizioni, la quali dimostrano la vita dell’opera con la sua dialettica”.

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