“Le parole sono importanti”, diceva un incazzatissimo Nanni Moretti in “Palombella Rossa”. Lo sa bene anche Michele Lapini, fotografo collaboratore di The Guardian, Vice, Internazionale, Corriere della Sera e Repubblica Bologna che, spesso citato sulle pagine di questo blog, ha dato vita, assieme a CHEAP, alla sua affissione sulle bacheche di via Irnerio della capitale emilana.
Nell’immenso portfolio di Lapini, infatti, ha trovato posto anche Antropocene, un longterm project fotografico di indagine e documentazione sulle cause e sugli effetti del cambiamento climatico in Italia: lo stesso progetto che proprio in questa sede di art action è stato ribattezzato con l’evocativo titolo di “Global Warning”.
“Può bastare una lettera – ha detto lo stesso Michele Lapini – per cambiare tutto. Una lettera che rappresenta una presa di posizione, chiara, netta, radicale. Un passaggio dall’inerzia, dalla rassegnazione, al movimento, alla lotta. Da “global warming” a “global warning”, però, non è solo una lettera che cambia.
Viviamo in un’epoca geologica che, grazie al biologo Eugene F. Stoermer, abbiamo imparato a chiamare Antropocene: un’epoca geologica in cui l’intervento dell’essere umano risulta un elemento dominante per i cambiamenti dell’ambiente e dell’ecosistema. Alcuni, tra cui Jason Moore, ha criticato quest’espressione suggerendone un’altra, Capitalocene, perché non è vero che tutta l’umanità allo stesso modo è stata ed è responsabile per le cause dei cambiamenti climatici. Se è pur vero che viviamo in un’epoca diversa da quella precedente, bisogna però considerare che sono i rapporti di forza del capitalismo a dover essere analizzati per poter trovare soluzioni efficaci.
L’allarme globale è già suonato, da tempo. I cambiamenti climatici non riguardano più solamente aree lontane, ghiacciai o deserti, oceani o luoghi sperduti. Gli effetti hanno già bussato più volte a ridosso delle nostre vite, dai fiumi alle foreste.
Le scelte individuali sono importanti e fondamentali, ma non sufficienti. La nostra azione non può fermarsi all’individuo. Deve farsi portavoce del global warning, dell’urlo della natura che uccide se stessa. Ci vogliono cambiamenti radicali, collettivi: system change, not climate change.
Un lavoro che ripercorre e mescola le cause e gli effetti. Che non travalica i confini nazionali, perché non c’è bisogno di andare lontano per capire che il momento di agire è qui e ora. Dalle emissioni del polo chimico di Ravenna, a quelle della raffineria nella Val d’Agri in Basilicata, nel giacimento petrolifero on-shore più grande d’Europa. Oppure, percorrendo le città e le campagne ricoperte dal cemento delle nuove urbanizzazioni, i fiumi in secca o quelli che straripano. Le montagne brune, disegnate dalla neve artificiale solo dove il turismo invernale lo richiede, o quelle che sono diventate cimitero di migliaia e migliaia di abeti rossi, nel nord-est italiano. E a questo punto non rimane che cambiare quella lettera per invertire la rotta”.
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