Se c’è una cosa che non sopporto a Milano, quella è il Fuorisalone. E così, quando un amico mi ha chiesto se andrò a qualche evento della Milano Design Week 2019, mi sono accorta che, mossa dall’istinto di autoconservazione, in realtà un piano ce l’avevo già: fare, per questi giorni, il pieno di graffiti e Street Art, anche di quei graffiti e di quella Street Art che stanno cavalcando l’onda del Fuorisalone per farsi un po’ di sana pubblicità e, perché no, avvicinare neofiti e appassionati al tema.
Insomma, il menu era ricco, e toccava tutta una variegata scala di prodotti (dai più interessanti ai più repellenti) per scriverne un pezzone dopo il weekend di full immersion: Bloop Festival Milano, Poli Urban Colors, “Milan is beautiful” di Mr. Brainwash e riqualificazione della Bovisa. Ma, si sa, quando si ha a che fare con la strada non si possono mai dormire sonni tranquilli, ed ecco che, inaspettata, è uscita la notizia che mi ha scompaginato i piani, convincendomi a scrivere questo articolo.
Protagonista della nostra storia è Poli Urban Colors, nell’ambito della Bovisa Design Week: 5 giorni in cui, come recita la locandina, “studenti e artisti internazionali si esibiranno per dare vita a una mostra a cielo aperto nel campus di Bovisa”. Ragazzi, insomma, ma anche artisti. E che artisti, viene da dire: 2501, Luca Barcellona, Rancy e Zedz sono i loro nomi, cui sono stati consegnati 2000 mq nel Campus Durando per realizzare “arte, coinvolgimento, formazione, live painting e interventi artistici permanenti”.
Nulla fuori posto, insomma, solo carte in regola per artisti noti e del tutto apprezzati per la loro storia e la loro formazione a Milano, in Italia e in Europa. Se non fosse che, nel giorno dell’inaugurazione dell’evento, un altro manipolo di artisti vecchia scuola e graffiti writer si sono palesati per quello che sono diventati: gli sgraditi ospiti di una storia che mischia scivoloni curatoriali e (ancora) profonda ignoranza sul tema.
L’artista ad avere sollevato la questione è stato KayOne, che proprio il 9 aprile mi scrive: “Da quello che ho saputo, il PoliMi non ha piacere a comunicare pubblicamente i lavori che sarebbero stati realizzati sul muro esterno del Campus. Lo stesso che, in fase progettuale, era stato “riservato” al Graffiti Writing. E così, io, sono uscito dal progetto”. Pardon?
Un fumine a ciel sereno, prima di tutto per il fatto che fino a quel momento nessuno (o, almeno, io) era a conoscenza del fatto che né KayOne né altri 11 altri artisti fossero stati inseriti nella line up: tutta la comunicazione era stata infatti imperniata sui nomi dei cinque famosi urban artist, senza menzione alcuna al mondo del graffiti Writing. E ora non solo si scopre che ci sarebbero stati molto più partecipanti al progetto di quelli sempre menzionati, ma anche che quegli stessi artisti sono stati messi da parte perché non graditi a scelte curatoriali superficiali e un po’ paracule.
Procedendo, infatti, scopro che, secondo KayOne, “non ci volevano, ma alla fine ci hanno accettato per cara grazia di uno degli organizzatori, però per vergogna non ci comunicano e lanciano nell’etere solo i nomi “digeribili”. Quindi, tradotto, a gratis noi dovremmo andare a dipingere un muro per il Poli, che non ci vuole, ma che comunque con noi risolve il problema delle tag, perciò ci sopporta… però attenzione non diciamolo, alla fine non ci piacciono tanto”.
Morale: al di là della solita contrapposizione tra due metodi artistici (e relativi fautori) tanto diversi, quello che mi lascia con l’amaro in bocca è un altro aspetto. Nonostante in campo ci fosse la conoscenza, il know how e pure il sigillo di un’istituzione nel campo della ricerca e dell’arte qual è il Politecnico di Milano, la scelta curatoriale fatta dimostra ancora scarsissima conoscenza della Storia e del Movimento, causando un vero e proprio corto circuito artistico che mischia i termini e fa confusione spazio-temporale. Ma è mai possibile che dopo i fiumi di inchiostro scritti, i kilometri di nastro registrati, gli ettolitri di metolo e idrochinone usati per sviluppare le foto, si possa ancora scivolare così goffamente su un tema ormai applicato, sdoganato, storicizzato e, sì, anche apprezzato?
Si badi bene: questa storiaccia non vuole togliere niente a quanto fin qui fatto dagli artisti (e amici) sopra menzionati. Giovedì ho voluto andare a vedere di persona il risultato e devo il work in progress non promette bene, ma fa di più, realizzando un progetto interessante e al passo con il resto dell’Europa. Non che vi fossero dubbi: i nomi in campo, come già ripetuto, sono tra i migliori sulla scena attuale, gli stessi che stanno dimostrando non solo bravura ma anche conoscenza storico artistica sopraffina (un po’ come ha fatto Rancy, che ha voluto dedicare la sua opera a una raffigurazione leonardiana non solo in un luogo che celebra il suo intelletto ma anche nell’anno del suo 500esimo anniversario di morte). Motivo per cui mi sento di consigliare a tutti, oggi, di passare in Bovisa alla festa di inaugurazione del progetto.
Non vorrei nemmeno che questo post prendesse a tutti i costi le difese di un solo artista (che pure è un grande artista) o di persone che, tuttavia, stimo: vorrei, piuttosto, che funga da ennesimo spunto per riflettere sulla necessità, ancora cogente, di divulgare il più possibile e nel modo più corretto esistente quanto fatto fin qui. Perché è vero che la Urban Art, la Street Art e tutte le nuove derivazioni post Duemila piacciono e vengno richieste (soprattutto dal PoliMi nei roventi giorni del Fuorisalone), ma è anche vero che chi dimentica è complice e che è bene ricordare da dove si viene per avere cognizione di dove si può andare.