Questa è una storia iniziata qualche mese fa. Il 25 giugno, per la precisione, quando il quotidiano La Stampa, edizione torinese, titola: “I graffitari pentiti aiutano il Comune a ripulire i muri della città. «Vi sveliamo i segreti dei writer»”. Un titolo troppo ghiotto per passare inosservato, un contenuto ai limiti del ridicolo per non essere ripreso e commentato.
Per inquadrare bene la questione vi invito a leggere l’articolo integrale qui sotto ma, di base, pare che a Torino ci siano dei writer “pentiti” (già, come Tommaso Buscetta and company) che negli ultimi tre anni hanno collaborato con Soprintendenza, Centro Conservazione e Restauro della Venaria Reale, Università e Comune di Torino per raccontare loro tecniche, strumenti e luoghi appannaggio dei “graffitari” e altrimenti celati ai più. L’obiettivo? Quello di “contrastare uno dei problemi più sentiti nelle città (e non solo a Torino): il vandalismo grafico”.
Forte, no? Non è dunque un caso che nei giorni subito successivi alla pubblicazione il link comincia a rimbalzare sui profili Facebook di gente non sospetta, tra bordate e battute che solo un titolo e un contenuto di tal fatta potevano attirarsi. Contagiata dallo sfottò, decido anche io di pubblicare l’articolo sul mio profilo, chiedendo alla mia triplice personalità di giornalista, storica dell’arte e appassionata del movimento, in ordine, quale fosse la valenza della notizia, se il progetto avesse davvero un’utilità ai fini della conservazione del patrimonio artistico torinese e come avesse potuto sopravvivere una sparata di questo tipo tra artisti et similia.
Ebbene, tra le varie risposte ricevute, ce n’è stata una che mi ha molto colpita: attacca con “Interrompiamo i lavori del summit tra i principali esponenti delle cosche del writing torinese, intenti a dividersi in zone di influenza la città, per dare visibiltà a questo articolo di Andrea Parodi su La Stampa Torino del 25 Giugno” e chiude con “Oscuri presentimenti aleggiano sulla vicenda: voci vicine alla cosca dei writers sussurrano con malcelata preoccupazione che l’uomo in nero, il burattinaio che tiene in mano i fili di tutta questa vicenda sia in realtà il capo del clan dei ragni: Spiderman”. In mezzo, un’ottima penna prende per i fondelli, con educata salacità, l’articolo redatto e la “notizia” che ci starebbe dietro.
Solo successivamente scopro che l’autore di questo simpatico post di risposta al pezzo è a firma di Berny, collega di Ruben, che me l’ha postato, entrambi writer e soci fondatori dell’associazione culturale torinese Monekys Evolution, che dal 2004 promuove progetti in ambito sociale e workshop sulle arti visive nell’alveo del Graffiti Writing. Decidiamo di sentirci per commentare la notizia (oltre che la loro “risposta” a essa) ma quello che accade è davvero inaspettato.
Nel corso di lunghissima call su Messenger, infatti, l’intervista si trasforma in una chiacchierata, e poi in un confronto, e poi ancora in un’intervista, ma questa volta a ruoli invertiti, ossia con Ruben e Berny che mi chiedono cosa ne penso del giornalismo culturale oggi, della situazione del movimento a Milano, del ruolo delle associazioni culturali come le nostre. Insomma, una notizia tanto farlocca ha dato origine a una conversazione fichissima, che ci ha fatti sentire vicini su tanti temi, che ci ha fatto dire “no, non sono d’accordo” su tanti altri, che ci ha fatto azzardare risposte e portare avanti proposte.
Capite bene che riuscire a tenere un filo logico in quello che è stato un vero e proprio stream of consciousness non è stato affatto facile (e, ammetto, non è stato nemmeno voluto: mi sarebbe sembrato di non dare loro abbastanza attenzione, di perdermi, di tenere un piede in due scarpe). Di certo, ci sono stati macro temi che abbiamo affrontato assieme, come la necessità di alzare il livello del giornalismo culturale a partire da un’adeguata conoscenza della materia; la grande differenza storica (e storico artistica) tra le città di Torino e Milano; l’immensa pletora di ragazzi che si affacciano al mondo della Street Art con un approccio molto diverso rispetto alle origini del movimento; il ruolo “mediatore” delle associazioni culturali; e la necessità di individuare qualcuno che possa porsi come interlocutore affidabile e qualificato per fornire a chi se ne occupa gli strumenti adatti per leggere, comprendere e, perché no, valutare quello che sta accadendo ai Graffiti e alla Street Art.
Utopia? Parole a vanvera? Chissà, di certo pane per i nostri denti, alla faccia di “pentiti” e sceriffi.