Si chiude con Atomo, volto storico della politica meneghina, la carrellata di articoli in vista della serata di Vecchia Scuola. Volutamente di parte, amante dei fumetti, grande amico di Shah e Swarz, Atomo ha spauto stregarmi con i suoi racconti di lotta, di eccessi e di ribellione. Ma tutto nel nome di un ideale, anche estetico.
Come inizia la tua avventura nel Writing?
La prendo da lontano: inizio a fare politica a partire dalla prima superiore, quando entro al Galileo Galilei, una scuola che, quando avevo 15 anni, mi ha bocciato con la media del 7 e 5 in disegno. In disegno, capisci? Era la mia passione, io nemmeno volevo farlo l’istituto tecnico, volevo fare il liceo artistico ma mia mamma mi ripeteva che con l’arte non si mangia e così mi ha obbligato a fare il tecnico industriale. E al Writing mi sono avvicinato proprio grazie alla politica: inizio a partecipare agli scioperi, conosco tanta gente e divento quello che, grazie alla bella calligrafia, fa manifesti e striscioni. A meno di 17 anni scappo dalla mia casa di Baggio e finisco in una casa occupata in via Conte Rosso a Lambrate. Qui inizio a vedere i primi libri sui graffiti, le prime recensioni, le prime riviste con foto di murales: all’epoca non c’era internet, non c’era il telefonino. Da lì la folgorazione: inizio a pensare come unire lo stile del Writing con le scritte politiche che facevo normalmente, inizialmente scegliendo slogan easy quali “trasgredire”. Da lì il salto ai puppet è stato automatico: li inserisco nell’economia del messaggio e, per farli nel più breve tempo possibile, inizio a usare i primi stencil.
Come si ponevano i writer dell’Hip Hop verso questo tuo uso del Writing?
Nonostante il Writing nasca da messaggi di propaganda politica e sociale, noi e loro avevamo dogmi che non condividevamo. Nel tempo si formarono una serie di puristi del Writing e dell’Hip Hop che a me non interessavano: vedevo il Writing come un modo per colorare il grigiore delle periferie da cui tutti venivamo, ma i puristi avevano storpiato tutto, proiettando il movimento verso una vera e propria esaltazione dell’ego fine a sé stessa. Di certo con alcuni di loro è stato possibile dialogare, ma ammetto che sono stato il primo a incazzarmi: pensa che quando arrivò Keith Haring a Milano, nel 1985, lo trattai male dicendogli che era solo un venduto (ma poi mi pentii, mi sarebbe molto piaciuto potere dialogare con lui). Una cosa però non mi è mai andata giù: tutti quei cultori che con l’avanzare del tempo avevano sempre meno luoghi a disposizione per pittare venivano nei centro sociali a farlo, ma senza un briciolo di riconoscenza e senza portare idee al loro interno.
Nella tua storia hai contribuito anche a fare qualche fanzine..
Sì, il mio sogno era quello di fare i fumetti, mi piaceva disegnare. Purtroppo però dopo due anni di superiori e lavori estivi serali, dopo essere andato fuori casa e dopo avere capito quanto costa la vita, ho mollato il colpo e ciao ciao fumetti. Fare fumetti e fare graffiti sono due lavori troppo diversi tra loro: nel primo caso si lavorava sul colore base, poi bisogna calcolare ogni passaggio, e infine, per ultimo, il contorno nero. Con le bombolette, invece, si lavora sullo sfumo, non hai contorno netto e definito se non nella lettera.
Come nasce la tua tag?
Quando frequentavo le superiori uno dei leitmotiv era che l’ATM doveva essere gratis per studenti e lavoratori, punto su cui spesso ci battevamo attraverso le manifestazioni. All’epoca a Baggio c’era ancora il tram 18 e una sera, finita una di quelle manifestazioni, mi ritrovai su quel tram con una banda di amici all’ultima corsa che da Baggio portava verso il centro. Decidemmo di dirottarlo e la scena fu comica: con la complicità del tramviere ci facemmo portare al Leoncavallo, cambiammo tutti gli scambi sul percorso e sul tragitto trovammo un bar di mafiosi. Le loro auto, come sempre, erano parcheggiate proprio sulle rotaie del tram: gli chiedemmo di togliere ma non si mossero, così noi decidemmo di agire: dal tram saltammo direttamente sulle auto e con gli anfibi ammaccammo i loro tettucci, con i proprietari che scattarono per5 togliere le loro auto dalle rotaie. La serata finì al Leoncavallo, belli fieri e pieni come uova. Da quel momento divenni Atomo: chiamavamo i tramvieri dell’Atm “Atomi”, e io non potevo che essere Atomo.