“Niente di nuovo sotto il sole”, avevo pensato quando, a gennaio, la notizia aveva iniziato a circolare tra gli addetti ai lavori. Quando si tratta il genio di Keith Haring, infatti, il rischio è sempre quello di ricordarsi di lui “solo” per i suoi omini stilizzati, troppo spesso svuotati del loro significato e stampigliati su qualche maglietta o agenda per il nuovo anno. Nel migliore dei casi si pescano dal cilindro alcuni temi (la lotta all’Aids, la Pop Art, l’Lsd e la metropolitana della New York anni Ottanta) per contestualizzare il personaggio e renderlo quel fenomeno da baraccone (mediatico) che l’ha reso celebre nei bookshop dei maggiori musei al mondo.
Solo dopo avere visto di persona la mostra “Keith Haring – About Art”, al Palazzo Reale di Milano fino al 18 giugno, mi sono profondamente ricreduta. L’esposizione, curata da Gianni Mercurio, promossa e prodotta dal Comune di Milano-Cultura e da Palazzo Reale, con la collaborazione scientifica di Madeinart e con il contributo della Keith Haring Foundation, non solo porta a Milano 110 opere (molte di dimensioni monumentali, alcune delle quali inedite o mai esposte in Italia , provenienti da collezioni pubbliche e private americane, europee, asiatiche) dell’artista newyorkese, ma per la prima volta rende il senso profondo e la complessità della sua ricerca, mettendo in luce il suo rapporto con la storia dell’arte.
Durante tutto il percorso espositivo i lavori di Haring vengono posti in dialogo con le sue fonti di ispirazione, dall’archeologia classica alle arti precolombiane, passando attraverso le figure archetipe delle religioni, le maschere del Pacifico, le creazioni dei nativi americani, fino ad arrivare ai maestri del Novecento, quali Pollock, Dubuffet, Klee. Non è un caso. Come spiegano gli organizzatori, la rassegna ruota attorno a un nuovo assunto critico: la lettura retrospettiva dell’opera di Haring non è corretta se non è vista anche alla luce della storia delle arti che egli ha compreso e collocato al centro del suo lavoro, assimilandola fino a integrarla esplicitamente nei suoi dipinti e costruendo in questo modo la parte più significativa della sua ricerca estetica.
Certo, è innegabile che l’arte di Keith Haring si sia fatta espressione di una controcultura socialmente e politicamente impegnata su temi propri del suo e del nostro tempo: come accennavo, droga, razzismo, Aids, minaccia nucleare, alienazione giovanile, discriminazione delle minoranze, arroganza del potere l’hanno reso una sorta di artista-attivista globale partecipe (e veicolo) di un sentire collettivo. Eppure, come questa esposizione dimostra, il suo intento fu soprattutto quello di ricomporre i linguaggi dell’arte in un unico immaginario simbolico, che fosse al tempo stesso personale e universale, per riscoprire l’arte come testimonianza di una verità interiore che pone al suo centro l’uomo e la sua condizione sociale e individuale. È in questo disegno che risiede la vera grandezza di Haring: da qui parte e si sviluppa il suo celebrato impegno di artista-attivista e si afferma la sua forte singolarità rispetto ai suoi contemporanei.
E allora sì che di fronte agli archetipi della tradizione classica come la colonna Traiana, dell’arte tribale ed etnografica come le maschere delle culture del Pacifico, dell’immaginario gotico, dei dipinti del Rinascimento italiano e delle opere realizzate da Jackson Pollock, Jean Dubuffet, Paul Klee per il Novecento, quegli omini stilizzati assumono un senso profondo.