L’uomo con i suoi sogni, l’uomo con le sue paure, l’uomo con la sua storia. Sul finire del Quattrocento era normale imbattersi nell’artista ossessionato dall’antropocentrismo, genio rinascimentale intriso della cultura umanistica di Pico della Mirandola, Leon Battista Alberti e Leonardo. Ma si dà il caso che, oggi, il pittore che mette l’uomo al centro della sua riflessione artistica sia un 41enne che si aggira per il mondo indossando un cappellino verde militare e dipingendo su tele bianche figure umane stilizzate e rigorosamente nere. David de la Mano può essere considerato, insomma, un Leonardo dei giorni nostri, che scruta l’uomo e la sua relazione con la realtà per trasportarla in opere a metà tra l’incubo e la fiaba, tra la fragilità e la malinconia. Ce ne dà un assaggio in “Latitude”, la nuova mostra che inaugura oggi alla galleria Wunderkammern di Milano e che resterà aperta fino al 21 gennaio 2017.
Con una formazione artistica presso l’Università di Salamanca e studi di dottorato in Arte Pubblica in quella di Valencia, David de la Mano non è proprio lo stereotipo di writer che tutti si aspettano di trovare: artista poliedrico che spazia dalla disegno alla scultura, ha cominciato la sua carriera all’inizio degli anni ‘90 creando progetti di Land Art, installazioni e sculture nello spazio pubblico e dal 2008 la sua attenzione si è focalizzata sui dipinti murali. Da allora de la Mano ha partecipato a numerosi eventi internazionali, tra i quali Empty Walls Festival (Cardiff, Regno Unito) e Memorie Urbane (Gaeta, Italia).
L’artista ama sperimentare con diverse tecniche tra le quali acrilici, penne, acquarelli, inchiostro e collage. Con il suo segno distintivo, quello delle figure nere su sfondo bianco, David de la Mano disegna singole silhouette antropomorfe che si accumulano e si uniscono in un moto eterno e ripetitivo; gli individui diventano la massa e vengono guidati dai loro sogni, ambizioni, paure, vizi, speranze, conflitti interiori. La stessa mostra personale, “Latitude”, propone una riflessione sul concetto di latitudine intesa non unicamente come termine geografico, ma come una situazione del corpo.
Come e quando il tuo percorso artistico è iniziato?
Ho iniziato a lavorare per caso. Nel 2008 qualcuno mi parlò dell’artista Blu e dopo avere visto i suoi lavori ho sentito che anche io avrei voluto usare la strada come spazio per il mio lavoro.
Hai studiato molto: come sei riuscito a come conciliare i tuoi studi universitari con il tuo lavoro per strada?
Beh, ho studiato 20 anni! Da giovane ho imparato a lavorare la pietra, poi ho lavorato come insegnante e ho fatto un sacco di sculture pubbliche per strada. A Valencia ho preso un dottorato in Arte Pubblica ma non ho finito perché non mi piaceva il modo in cui si lavorava in università e io volevo fare arte.
Perché hai scelto la Urban Art?
Credo che la strada è la parte naturale del mio lavoro. La Urban Artè così eccitante!! Puoi lavorare a contatto con le persone, respirare aria fresca e molto altro. La Urban Art oggi è cambiata molto: quando ho iniziato era più vicina a un’arte marginale, nessuno capiva cosa stessi facendo ma noi sentivamo che era una grande esperienza che cresceva di giorno in giorno. Oggi è tutto molto diverso.
Quali tecniche usi e qual è la tua preferita?
Dipingo sempre con la stessa tecnica e la stessa idea, uso disegni solo per i grandi muri (quelli piccoli li dipingo direttamente), pennelli, rollers e colori acrilici, mai gli spray. Mi piace il contatto con il muro, dipingere così mi fa stare bene.
Perché usi spesso i colori del bianco e del nero?
Quando ho iniziato a dipingere, mi sono posto la stessa domanda e mi sono risposto che è una questione di organizzazione. Ho capito che, per me, dipingere con un solo colore è davvero ottimo perché l’idea è la cosa più importante e, a volte, l’idea necessita di molte persone quindi se usassi i colori dovrei impiegarci un sacco di tempo. Mentre così sono soltanto io di fronte alla strada e uso il nero che è un colore “problematico” e che racchiude in sé molti diversi significati: per esempio, non mi piace che le strade siano più belle e felici grazie ai miei lavori. Credo che non sia la funzione che debba svolgere l’arte. L’arte deve, piuttosto, essere il più critica possibile e la strada è il posto migliore in cui fare critica.
Come definiresti il tuo lavoro?
Ora è più personale, sto cercando di guardare dentro me stesso per vedere le domande che ciascuno di noi si pone. Mi piace pensare che il mio lavoro sia aperta a molte interpretazioni: una murata con un solo significato è una pessima murata, per me. Perdonami, non sono sicuro di essere in grado di definire il mio lavoro.
Nei tuoi lavoro c’è qualcosa di onirico e fiabesco: qual è la tua ispirazione?
La realtà è la parte più importante per me: mi piace informarmi sulle cose che succedono nel mondo, ovviamente non dipingo mai questi problemi ma credo che proprio questa sia la finalità del mio lavoro.
Cosa narri nelle tue opere?
Credo che a volte sono come uno scrittore che inizia a scrivere sapendo solo la struttura del suo racconto ma non la fine.
C’è qualche artista o musicista o regista che ti piace molto?
Sì, amo la musica e il cinema in generale. Ora sto ascoltando “Omega” di Morente and Lagartija Nick, el Nino de Elche, Bjork, Sigur Ros, Mikel Laboa, Manel. Riguardo ai registi: Vicente Aranda, Mario Camus, Isabel Coixet, Leon de Aranoa, Cohen, Lars Von Trier.
Puoi dirmi qualcosa su “Latitude”?
Latitude è il mio ultimo progetto personale. Da un po’ di tempo mi frullava in testa questa idea e solo adesso ho avuto modo di darle corpo attraverso le tele della mostra. L’anno scorso abbiamo vissuto una situazione molto problematica nel Mediterraneo e in due altre parti del mondo. È molto difficile creare senza vedere cosa accade nel mondo e Latitude è una visione introspettiva di ciò che penso riguardo a questa situazione.