Lo scorso 16 marzo ha aperto la sesta edizione milanese di Affordable Art Fair, la mostra mercato di arte contemporanea con pezzi al di sotto dei 6mila Euro. in quell’occasione Pao, che ad AAF partecipa esponendo allo stand G4, ha scritto su Facebook :
“Affordable Art Fair, classifica di quest’anno:
Teschio 50 dipinti
Marilyn 15 dipinti
David Bowie 8 dipinti
Il teschio vince alla grande stracciando tutti i concorrenti e soprattutto Marilyn, dominatrice degli ultimi anni, si piazza terza. New entry è David Bowie, che scalza così Audrey Hepburn dal podio”.
Una battuta, che però esprime un giudizio non solo sulla kermesse ma sull’intera scena contemporanea della produzione. E quindi del mercato.
È da qualche tempo che rifletto su una frase detta dall’artista giapponese Takashi Murakami, durante una sua mostra tenuta alla galleria Gagosian di New York: parlando delle opere esposte, disse che erano state preparate in funzione di un pubblico estremamente esigente. Chi conosce Murakami sa bene quale sia il suo abituale livello tecnico, eppure decise di alzarlo per quella mostra. Ne aveva bisogno? Secondo lui sì. E questo mi ha fatto pensare a cosa è accaduto in questi anni in Italia.
Dopo la mostra “Street Art Sweet Art” tenuta nel 2007 al Pac di Milano assistetti a una vera isteria da esposizione. Tutti erano diventati di colpo artisti e pretendevano un riconoscimento istantaneo. Le gallerie più improbabili iniziarono a proporre ogni tipo di paccottiglia spacciandola come l’opera di fantomatici artisti mai sentiti, ma che a loro dire erano di fama internazionale. Anche i media con estrema facilità appoggiarono molti del movimento, attribuendogli doti artistiche inesistenti. Come molti sanno il gioco riuscì bene, in molti vendettero le loro opere a prezzi totalmente fuori mercato, perché in Italia non esisteva e non esiste ancora oggi un sistema di critica credibile in grado di generare un pubblico finalmente esigente. Per alcuni anni fu il bengodi, fino a quando scoppiò la bolla e il valore di molte opere scese anche del 90%, gettando discredito su tutto il movimento. Chi comprava opere di Street Art si sentì truffato, e non sapendo distinguere l’artista bravo da quello incapace smise semplicemente di comprare. Io che osservavo questo momento di isteria dall’esterno rimasi colpito nel constatare come in molti accettarono di prostituirsi senza il minimo ritegno davanti alla promessa di facili guadagni.
Alcuni di loro vennero da me dicendomi che la festa non sarebbe durata a lungo, e che se volevo “guadagnare” mi sarei dovuto sbrigare a produrre qualcosa di accattivante in grado di vendere. Ascoltare questi discorsi mi fece capire che quasi nessuno credeva nel valore di quello che stava facendo, perché non era impegnato nell’arte ma in una operazione del tipo “prendi i soldi e scappa”. Oggi questi personaggi evitano accuratamente di menzionare il fatto di essere stati fino a poco tempo prima degli Street Artists, con la speranza di crearsi una nuova verginità da cui ripartire, e in pochi ci stanno riuscendo, perché in pochi valgono veramente. Quindi cosa fare?
In giro si vedono un mare di immagini che pur essendo accattivanti sembrano tutte uguali, e che per questo finiscono per diventare artisticamente irrilevanti. Personalmente resto colpito solo da quegli artisti che con il loro lavoro riescono a produrre in me un cortocircuito di senso, che prendendomi alla sprovvista mi porta a dubitare delle mie certezze in fatto di estetica e di significato. Come ci riescono? Con un serio lavoro di ricerca, di studio e di sperimentazione, in grado di far germogliare nuove idee e intuizioni, che solo dopo un lungo lavoro di affinamento potranno diventare opere d’arte. Lavoro, pazienza e perseveranza, capacità di comprendere se stessi e di quale visione della realtà si è, coerentemente con il proprio vissuto, in grado di diventare narratori. Fatto questo non sarà difficile trovare i canali su cui far girare i propri lavori, in attesa del giusto riconoscimento. La qualità, in un mare di cose tutte uguali premia, sempre.
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