#StreetForum Nulla di losco dietro a graffiti e street art

di anotherscratchinthewall

Il viso incappucciato, le bombolette nella tasca della felpa, lo sguardo basso per non farsi riconoscere. Siamo davvero sicuri che quello è un writer? O, piuttosto, è la visione distorta che un po’ tutti ci siamo fatti di un writer, un losco figuro che “attacca” nel buio della notte? Lavorare sui muri non significa fare cose a caso purchè illegalmente.

Alle origini del movimento artistico newyorkese, i writers erano persone che vivevano in una situazione davvero difficile, che portava spesso ad atti di vera delinquenza. Aspettarsi o addirittura auspicare che nella Milano degli anni ‘80 si potessero ripetere le azioni accadute nel Bronx degli anni ‘70 è una pretesa ridicola. Eppure, quante volte nel corso degli anni mi sono state poste domande tremendamente stupide, con la speranza di farmi confessare qualcosa di losco.

Fra le tante, la seguente le sintetizza tutte: “Ma voi agli inizi della vostra attività rubavate le bombolette per dipingere… vero?”.  Io rispondevo di no, provocando nel mio interlocutore una reazione mista a delusione e sorpresa, che sfociava quasi sempre in una affermazione, che celando un velato senso di rimprovero, serviva a ricordarmi che “A New York però lo facevano”. Ora, come si può pensare che una bomboletta “rubata” sia meglio di una bomboletta “comprata” ? Capisco che affermarlo renderebbe la storia di un giovane writer più affascinate e avventurosa, facendo la felicità di chi ha bisogno di sentirsi raccontare frottole. Ma nel mio caso si tratterebbe di una bugia di cui non ho mai avuto bisogno per dare lustro al mio lavoro, come dimostra la mia esperienza di writer. Fare graffiti nel 1986 era già abbastanza difficile. Non avevamo certo bisogno di complicarci ulteriormente la vita mettendoci a rubare.

Va detto che a metà degli anni ‘80 cercammo di affrontare questa nuova cosa che ci piombava addosso, la cultura Hip Hop, non certo da un punto di vista intellettuale: eravamo degli adolescenti e non eravamo in grado, ma l’abbiamo sempre fatto con il massimo dell’entusiasmo e della “serietà di cui eravamo capaci”.  Uso il termine “serietà” per dire che dopo aver visto la mostra “Arte di frontiera” capimmo che per iniziare a dipingere avremmo dovuto compiere un salto di mentalità, necessario a farci entrare in un mondo che richiedeva un approccio di tipo artistico, anche se a quel tempo sapevamo di non essere artisti. Dovemmo maturare, e in fretta, per trovare dentro di noi quel grado di determinazione necessario al superamento di prove mai affrontare prima. Di losco non ci fu niente, anche se qualcuno si ostina a pensare il contrario.

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